jueves, 1 de mayo de 2025

Le Romane

 



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Le Romane

Nella civiltà Romana, in presenza di malformazioni congenite, il tasso di abbandono delle neonate era alto, ma quando le bambine venivano riconosciute dal padre entravano a far parte della sua gens. Le bambine nate in famiglie agiate erano educate in casa, imparando a leggere, a scrivere e a far di conto. La madre e le ancelle le iniziavano alle faccende femminili, preparandole a diventare spose e madri. Le bambine nate nella famiglie umili imparavano un mestiere. Nell’antica Roma, poche coppie si sposavano per amore, poiché il matrimonio era un’istituzione societaria atta alla procreazione dei figli che avrebbero dovuto ereditare e facilitare la vita del gruppo familiare tramite alleanze, accrescendo il potere politico, sociale ed economico. Quindi, in tutti i matrimoni, in seguito arrivava l’amante. A Roma, gli scapoli dovevano pagare delle tasse più esose degli ammogliati, quindi era più conveniente sposarsi.

Nella Roma arcaica la donna era sottomessa alla potestà del padre, pater familias, il quale poteva venderla come schiava e se rubava il vino dalla botte poteva anche ucciderla. Le figlie si sottraevano alla patria potestà diventando proprietà del marito, quando si sposavano cum manu, mentre sine manu, restavano di proprietà del padre. Da vedove diventavano proprietà del figlio maggiore. Queste regole, nel trascorrere dei secoli s’ammorbidirono, limitate dalla pietas familiare.

Il matrimonio cum manu, si divideva a sua volta in tre forme. Confarreatio, coemptio y usum. La confarreatio era la forma più antica e solenne del matrimonio, celebrato in presenza di dieci testimoni, i quali, insieme agli sposi si coprivano la testa con una pelle di pecora, offerta in sacrificio. Poi, lo sposo prendeva sale e panis farreus, giurando d’amare la sposa. Ottaviano Augusto e Livia Drusilla scelsero questa maniera per sposarsi. La coemptio era celebrata consegnando al padre della sposa una moneta d’argento e una di bronzo. Il matrimonio per usum si celebrava dopo che la sposa aveva vissuto con lo sposo un anno. Per divorziare bastava che la sposa dormisse fuori casa per almeno tre notti. La formula cum manu passò in disuso alla fine della Repubblica, cedendo il passo a quella sine manu, dove la donna rimanendo sotto la tutela paterna, riceveva la sua eredità, restandone in possesso anche in caso di divorzio.

Dopo il 445 a.C., con la lex Canuleia, i plebei potevano sposare un patrizio. La sposa doveva avere un’età minima di dodici anni e lo sposo quattordici. I padri potevano fare una promessa matrimoniale quando la bambina aveva sette anni. Sposarsi quando una ragazzina non aveva ancora completato lo sviluppo fisico, implicò la morte di molte ragazze per complicanze da parto. Il matrimonio con figli anche se adottati non era lecito e neppure tra fratelli. Neanche lo zio poteva sposare la nipote, anche se all’epoca di Claudio, il senato fece un’eccezione, permettendo allo stesso di sposare, nel 49, sua nipote Agrippina Minore. Le plebee, non possedendo una dote, si sposavano in ritardo. Anche se non era proibito, non era consigliabile sposarsi nei giorni festivi, perché gli invitati non avrebbero partecipato alla cerimonia, preferendo le feste religiose; quindi le vedove o chi non voleva l’attenzione della gente celebravano il matrimonio in quei giorni. 

La sposa vestiva la tunica correcta, bianca e ben stirata, corredata da una cintura, cingulum, con il nudus hercules che doveva essere sciolto dallo sposo a notte. I suoi capelli erano divisi in sei trecce, coperte da un velo color arancio, il flammeum, con in testa una corona. Le scarpe erano dello stesso colore del velo. La casa era decorata con rami di alberi contenenti foglie e fiori. La sposa univa la sua mano a quella dello sposo, recitando una frase di conferma della cerimonia. Dopo il rito si festeggiava con i famigliari e gli amici, in un fastoso banchetto. Alla fine si simulava il ratto della sposa da parte dello sposo, la deductio, che consisteva nel prendere la sposa, rifugiata nelle braccia della madre, con lacrime e lamenti, dando inizio al corteo nuziale. Le persone andavano al grido di Talassio, in riferimento all’episodio avvenuto durante il ratto delle Sabine. Davanti casa lo sposo prendeva la sposa in braccio per varcare l’uscio. In quest’ultimo atto non bisognava inciampare altrimenti il malaugurio avrebbe regnato su di loro. Il giorno dopo la sposa offriva un alimento a Lares e Penates e un banchetto per i familiari più stretti.

Nella Roma antica non esisteva il divorzio, ma il marito poteva ripudiare la moglie e rispedirla dal padre, con discredito per la famiglia. Solo il marito poteva chiedere il divorzio e per quattro motivi. Nel caso in cui lei lo avesse tradito, se si fosse ubriacata, se avesse abortito contro la volontà del marito o se si fosse data alla stregoneria. Il primo divorzio della storia Romana che si ricordi, si ebbe per sterilità, tra Spurius Carvilius Ruga e sua moglie. Nella Roma Repubblicana bastava la volontà di uno dei due suoceri a sciogliere il matrimonio, anche contro la volontà dei due giovani.

Nell’epoca imperiale ci aggregarono altri motivi per divorziare, come avvenne a Caio Sulpicio Gallo che ripudiò la moglie perché seppe che era uscita a capo scoperto. Quinto Antistio Veto divorziò dalla moglie perché l’aveva vista parlare con una liberta di dubbi costumi. Publio Sempronio Sofo divorziò perché la moglie aveva assistito ai giochi, senza avvisare il marito. Con il passo del tempo, i divorzi aumentarono a dismisura, per la voglia di allacciare nuove alleanze tra famiglie più importanti. Nelle famiglie imperiali, tra il 27 a.C. e il 96, i divorzi furono ventisette. Alla fine del I secolo a.C., le mogli potevano gestire i propri averi e risposarsi in caso di divorzio o di vedovanza. Si divorziava in pochi minuti, senza formalità giuridiche. I vedovi potevano sposarsi subito, mentre le donne dovevano aspettare un anno, per tema di gravidanze occulte.

All’epoca di Augusto, Roma stava soffrendo un declino demografico soprattutto nella classe aristocratica, perché le coppie avevano deciso scientemente di ridurre il numero della prole, per problemi contingenti alla procreazione e all’allevamento. In più, ci fu una diminuzione della fecondità, dovuto alla presenza di piombo nelle tubazioni dell’acqua potabile e molte donne preferivano rimanere con il padre che sapeva essere più dolce di un marito. Augusto decise di invertire la tendenza, divulgando due leggi che imponevano alla gente di procreare, pena un forte tributo da versare all’erario. La lex maritandis ordinibus, del 18 a.C. e la lex Poppaea del 9 a.C., obbligavano gli uomini aristocratici tra i 25 e i 60 anni e tutte le donne tra i 20 e i 50 anni, di sposarsi, altrimenti avrebbero perso l’eredità. Stabilì inoltre che tutti i padri con tre o più figli potevano entrare nella magistratura prima dell’epoca prevista, tramite la legge, ius trium leberorum e le donne potevano ereditare e gestire i propri beni senza interferenze maritali, con la ius trium liberorum, ma le misure non sortirono l’effetto desiderato. 

Concubina era quella donna che aveva una relazione sessuale con un uomo sposato, vivendo in casa di quest’ultimo, senza essere sua moglie. Il nome concubina viene da cum e cumbo, ossia, giaccio insieme. Dalle origini, la poliginia era una prassi e oltre alla moglie, anche nei ceti più bassi, un uomo ospitava nella sua casa, una o più donne. Una legge emanata da Numa Pompilio stabiliva che la moglie legittima stesse un gradino più in su, rispetto alle altre paelices, concubine, presenti in casa.

Vi erano due tipi di concubinaggio. Affiancare la concubina a un uomo già sposato o diventare la sua unica donna, senza sposarsi. Molti senatori di età avanzata, vedovi o divorziati con figli, preferivano una concubina a una nuova moglie. Avrebbero salvaguardato il patrimonio di famiglia ed evitato problemi di successione, qualora fossero nati nuovi figli, i quali non avevano diritti. Qualsiasi genere di contatto tra uomini e donne, in pubblico, era considerato amorale e una coppia, pur sposata, non poteva neanche tenersi per mano.

Chiunque toccasse una donna in maniera intenzionale, chi le indirizzava epiteti offensivi, chi le faceva proposte indecenti, pressioni psicologiche o la pedinava, era punito da un’apposita legge. Lecito era avvicinare una donna, ma se era una matrona d’alto rango e la si corteggiava in modo volgare o insistente, si era condannati a delle pene pecuniarie che aumentavano con lo status della donna. Le strade di Roma erano pericolose per loro, soprattutto se indossavano gioielli, poiché per un povero, un tale furto valeva una vita di lavoro. Le matrone uscivano raramente di casa e sempre a capo scortato. Portavano seco un fazzoletto per scongiurare il sudore e la polvere e un ventaglio, flabellum, per combattere il caldo e scacciare le mosche, oltre a un piccolo ombrello, umbraculum. L’ombrello, già usato dagli Etruschi, era molto simile a quelli di bambù, oggi usato in estremo Oriente e nell’Europa fino XIX secolo.

Giovenale delle donne diceva: “Oggi, nell’alta società, l’unico buon affare è una moglie sterile. Tutti ti saranno amici, sperando nel tuo testamento. Quella che ti fa un figlio, chi ti dice che non metta alla luce un negro?”

Il matrimonio era diventato un impiccio da evitare. L’infanticidio era vietato, ma l’aborto era praticato, altrimenti i neonati si abbandonavano ai piedi della colonna lattaria e ripresi da nutrici stipendiate dallo Stato, per allattare i trovatelli. In epoche antecedenti, il matrimonio era stato un sacramento e allevare i figli era considerato un dovere verso lo Stato e gli dei, i quali promettevano la vita eterna solo a chi procreava. Poi, la società Romana cambiò e tutti mischiarono il sangue Romano con quello di altre etnie dell’impero; Siriani, Ebrei, Egiziani, Greci e altri.

Le donne hanno dovuto combattere per vedere rispettati i propri diritti, ma in confronto ad altri popoli non furono trattate male. La società, pur maschilista, aveva grande considerazione delle donne, le quali erano chiamate a svolgere compiti secondo la volontà dei mariti, spesso lontani dalla patria, amministrando le finanze, la casa e i figli. Escluse dalla vita politica, non potevano votare, non potevano decidere chi sposare e non stilavano un testamento, ma potevano amministrare i propri beni e avere parità morale, sociale e giuridica. La donna Romana viveva un contesto migliore di quella Ateniese, dove era un oggetto nelle mani dell’uomo, mentre la donna Romana si confrontava quasi alla pari. Non potevano interferire nella vita politica, ma in realtà, tante donne hanno controllato tanti illustri uomini. Cornelia, la madre dei Gracchi è il prototipo della donna che i Romani sognavano. Moglie fedele, anche dopo la morte del marito e madre irreprensibile. Lucrezia, donna onesta e pudica, al tempo di Tarquinio il Superbo, preferisce affrontare il suicidio, anziché il disonore. Ottavia, sorella di Ottaviano e sposa di Marco Antonio è l’esempio di madre e moglie virtuosa, con doti fisiche e intellettuali elevate, prototipo di donna raffinata; devota alla famiglia, a scapito delle proprie necessità.

Ortensia, donna evoluta, tenne nel 42 a.C., un discorso pubblico a causa di un provvedimento fiscale verso le matrone più facoltose, le quali avrebbero dovuto versare un cospicuo contributo allo Stato, in base al loro patrimonio, riuscendo a far diminuire il numero delle donne costrette a farlo. Nel 195 a.C., protestarono per molti giorni, per far abrogare una legge ritenuta restrittiva che imponeva di non indossare vestiti dalle tinte vivaci, di non possedere più di mezza oncia d’oro e di non salire sui carri in città, tranne nelle cerimonie religiose. Furono così tante che la famigerata Lex Oppia fu abrogata.

La domina, la signora, mangiava seduta accanto al marito sul triclinio, mentre lui era disteso. Nella casa si limitava a dirigere e sorvegliare il lavoro degli schiavi. Talvolta si dedicava a tessere la lana per gli abiti del marito e dei figli. Le visite nella casa, domus, erano rare e si risolvevano rapidamente. Con l’avvento del Cristianesimo, le donne dovevano essere ignoranti per essere asservite più facilmente. Furono bruciati i libri, ma soprattutto i loro scritti. Le opere della poetessa Sulpicia, si salvarono perché furono ritenuti scritti dal poeta Tibullo. La Chiesa non dichiarò che la donna aveva un’anima. Alla caduta dell’Impero Romano e all’avvento della Chiesa, il riconoscimento dei loro diritti fu eliminato con metodi brutali.

La domina, sposa o figlia di un facoltoso, si truccava come fanno le donne dei nostri tempi. L’operazione era un rito che poteva durare anche delle ore, realizzato con l’ausilio di tre schiave. Tinta di calamari per disegnare gli occhi, cenere per le ciglia, polveri rossastre per le gote, minio e cinabri per tingersi le unghie delle mani e dei piedi, per le più abbienti polvere d’oro attorno ai capezzoli, se si prevedeva un finale felice. Gli ingredienti erano elaborati in creme a base di miele, per dare luminosità al viso e mantenere le pelli morbide. Le donne Romane consideravano seducente l’unione delle sopracciglia. Chi non le aveva, se le procurava, triturando e mischiando uova di formiche con mosche secche. Per profumare la sua signora, la schiava si riempiva la bocca di profumo, nebulizzandolo sulla parte da profumare. Una sorta di spray ante litteram.

Le Romane si tingevano i capelli di biondo, con erbe teutoniche e usavano spumeggianti parrucche bionde, rosse o nere. Poi, oltre ai colori tradizionali, fu usato anche il verde e l’azzurro, soprattutto dalle prostitute di lusso, ma anche dalle donne più libere. Per la cura dei capelli erano usate varie misture con aceto e tuorlo d’uovo, alternato con mele, fiori d’iris e latte. Ovidio, nella sua opera Ars Amandi, consigliava che ogni donna scegliesse davanti allo specchio la pettinatura che più le donava. Un volto lungo vuole capelli divisi sulla testa, mentre per un viso tondo è meglio che i capelli siano raccolti a nodo sopra il capo, con le orecchie scoperte o sciolti sulle spalle. C’erano pettinature con capelli inanellati, stretti alle tempie, sciolti in grandi onde o finta trascurata che richiedeva più cure di tutte. La canizie si mascherava con una tintura. Le Romane usavano legare i capelli a coda, annodati o intrecciati dietro le spalle, a boccoli sulle spalle, annodati a corona sul capo o raccolti in reticelle o cuffie. In epoca Flavia, le donne si fecero acconciare i capelli in complicati riccioli o lunghe trecce disposte come torri sulla testa che le slanciavano, aiutate dalle ornatrices, schiave specializzate. Diademi, coroncine o spilloni completavano le acconciature. Alcune donne praticavano la chirurgia estetica per migliorare alcuni difetti estetici eclatanti, come un gozzo preminente o il labbro leporino.

Nell’epoca repubblicana, in strada le donne sposate indossavano un copricapo chiamato rica, mentre in età imperiale andavano a capo coperto. Le matrone non indossavano veri e propri cappelli, ma ponevano sul capo un lembo del mantello in nome della loro serietà, adornando le chiome con dei nastri a diverse altezze, su una pettinatura raccolta dietro o a ricci sciolti sul davanti, multicolori. I nastri erano di bisso, di seta, dorati, tempestati di paste vitree o con perle o gemme. Livia Augusta portava un grosso boccolo sulla fronte, poche onde sui lati e trecce raccolte dietro la nuca. Pur senza brillare per raffinatezza, essendo l’augusta, dettava la sua semplice moda ordinata dal marito. Poi, alla morte di Augusto le donne si diedero alla pazza gioia. La pettinatura di Giulia Drusilla era un capolavoro di spregiudicatezza. Dietro il capo aveva una treccia che tornava indietro raccolta da un fermaglio. Intorno al viso i capelli ondulati, con una fascia di metallo che li ornava e li fermava. Degli anellini spuntavano dalla capigliatura sul viso, ornato fin davanti alle orecchie. Poppea usava pettinature elaborate fatte di boccoli sulle spalle e riccioli sulla fronte, diademi e nastri. Molto diffuso era tingersi le labbra di rosso.

Le donne dell’alta società si vestivano quasi tutte allo stesso modo e i loro indumenti non erano molto dissimili da quelli maschili. Il sarto arrivava a casa, vestitor, il quale provvedeva al loro guardaroba. Una morbida stoffa chiamata strophium, avvolgeva il seno, per metterlo in risalto e mutandine eleganti e sexy, ricamate con arabeschi di fiorellini, simili agli attuali tanga, adornavano le parti intime.

Poi, indossavano una tunica simile a quella dell’uomo, chiamata stolae, sormontata da uno scialle chiamato palla che arrivava sino al ginocchio. Sopra la tunica, subucula, indossava una tunica più corta, supparum o un’ampia stola che arrivava sino ai piedi. Tutti gli indumenti erano fissati in varie parti tramite delle cinture, cingula, cinture piccole, subcingula, spille, fibulae, per dare grazia al vestito. Gli abiti erano colorati e adornati con gioielli e accessori colorati, abbinati elegantemente. La dalmatica era un abito in lino che poteva essere corto o lungo, con ampie maniche. Oggi costerebbe dai 500 ai 3.000 euro. Se la dalmatica era in seta, con strisce di porpora scura, poteva costare sino a 13.000 euro. In momenti particolari usavano le plucca, scarpe alte che servivano a slanciarle.

La discriminazione trai due sessi, si verificavano anche al momento della identificazione. Mentre i maschi avevano tre nomi, praenomen, nomen gentilizio e il cognomen, le donne avevano un solo nome che si riferiva a quello gentilizio. Quello di Cornelia, la famosa madre dei Gracchi, è un nomen che indica solo la gens Cornelia. da qui gli aggettivi che bisognava inserire per distinguere una donna da un’altra della stessa famiglia; maggiore, minore, seconda, terza e cosi discorrendo. Oppure si menzionava il nome del padre; Annia, figlia del senatore Publio Annio. Era anche in voga usare un diminutivo del nome paterno; Livia Drusilla, moglie di Ottaviano Augusto, il padre si chiamava Druso. Solo in età imperiale, le donne si potevano indicare aggiungendo al nomen, il femminile del cognomen del padre o del marito, come Cecilia Metella.

Ma, sicuramente, il praenomen delle donne è sempre esistito, ma noto solo ai parenti stretti e vietato comunicarlo ad altri. Si tratterebbe di una usanza Sabina, presa agli albori della storia di Roma e poi fatta propria. I Sabini consideravano il praenomen un elemento troppo intimo di una donna, quindi da dover nascondere come il corpo. Infatti, le prostitute si facevano chiamare solo con un praenomen. Da qui, l’usanza ancora in voga, di non chiamare le persone per nome, quando vi è una concreta differenza di età, di cultura, di appartenenza, di status.

Alcune matrone pagavano somme esorbitanti per passare una notte di piacere con un gladiatore e alcune ponevano come condicio sine qua non che arrivassero sporchi e sanguinanti dopo il combattimento. Anche alla moglie dell’imperatore Marco Aurelio, Faustina Minore, piacevano i gladiatori. Mentre il marito era lontano, lei si trasferiva a Gaeta, dove c’era una grande scuola gladiatoria, togliendosi tutti gli sfizi. Durante una nottata di piacere rimase incinta di Commodo, il quale, da imperatore, combatteva nell’arena. Eppia, moglie di un senatore, amava un gladiatore chiamato Sergiolus, piccolo Sergio. Giovenale lo descrive con la faccia sfregiata, una gibbosità sul naso per colpa dell’attrito con l’elmo e un occhio lacrimante. Una specie di mostro, eppure per lui, abbandonò una vita agiata, il marito senatore e i figli, seguendolo in Egitto.  

A Roma, si andava a letto presto e ci si svegliava all’alba. In epoca imperiale, tra le famiglie aristocratiche, si diffuse l’abitudine di dormire in stanze separate. Pur essendo stata la civiltà più legata all’igiene, al mattino nessuno si lavava. Chi lo faceva era aiutato da uno schiavo che sorreggeva un catino pieno d’acqua. I Romani si lavavano nelle terme, dopo l’ora di pranzo, ma il sapone era sconosciuto. Nel bagno pubblico, per lavare le parti intime, si usava una spugna imbevuta con acqua e sale. I Romani si lavavano i denti con l’orina e quella spagnola era la più quotata, infatti era imbottigliata e venduta in tutto l’impero.

Il bacio per i Romani era di tre tipi. Il bacio con le labbra chiuse si chiamava Osculum, da dare al marito alla presenza di estranei o in casa, in osservanza dello ius osculi. Basium, da cui deriva bacio, era quello affettuoso che si dava alla moglie e ai figli. Savium, era il bacio passionale o erotico. Derivava da suavis, dolce. L’usanza di baciare una donna affonda nella notte dei tempi e lo scopo era controllare se la donna avesse bevuto. Una legge antichissima le vietava di bere vino, dando al marito il diritto di controllarla e ripudiarla, se lo riteneva opportuno o in casi estremi di rinchiuderla in una stanza della casa e lasciarla morire di fame o ucciderla a bastonate.

La ragione di questa punizione cosi severa stava nel facile tradimento che poteva scaturire. I parenti del marito annusavano la presunta colpevole per confermare l’accusa del marito. Talvolta erano proprio i parenti ad accusarle, per salvare l’onore della gens, qualora il marito non se ne accorgesse. Poi, lo ius osculi, diritto all’assaggio, favorì la diffusione dell’herpes labialis, inducendo Tiberio a proibirlo per sconfiggere l’epidemia. Anche in senato i baci erano comuni, come riconciliazione o nelle pari dignità. Vi era anche l’usanza di baciare le mani alle persone più importanti, tutte tradizioni giunte ai nostri giorni.

Nel privato c’era una grande libertà sessuale. La prostituzione era molto diffusa e non disprezzata. A Roma si contavano ben 32.000 prostitute, tra schiave e donne libere della plebe, le postribulae, schedate in appositi registri. Il 23 aprile e il 25 ottobre si celebravano le loro due feste con una processione sacra al tempio di Venere Ericina. Molti erano bisessuali e l’amore omosessuale era consentito. Catullo dichiarava il suo grande amore per Lesbia e le sue aspirazioni omosessuali. Cicerone era attivo con il suo servo e Adriano se la spassava con i giovani. Era infamante per un maschio essere penetrato o ricevere la fellatio da una persona di classe sociale inferiore. Il sesso orale non era ben visto, mentre era considerato normale il sesso anale. Si diceva che chi praticava il sesso orale, aveva l’alito pesante e non era gradito a tavola come ospite.

Le famose orge dei Romani furono pura propaganda cristiana, poiché non erano praticate. Le uniche orge praticate erano quelle dionisiache che non prevedevano il sesso, ma ebbrezza con l’ausilio di erbe o vino. Durante il periodo imperiale, le infedeltà delle mogli non furono represse e le separazioni divennero comuni e permesse, se il marito restava troppo a lungo in guerra. La moglie, per contratto, poteva essere ceduta dal marito a un amico, legalizzando un adulterio già esistente.

Nel tardo impero, per interferenza della Chiesa fu dichiarato reato la omosessualità, detto stuprum. Da quel momento in poi, la Chiesa ha perseguitato gli omosessuali e la sessualità, considerata positiva solo nel caso di procreazione, da consumare senza provare gusto. Alla donna era vietato il ruolo di sacerdotessa, ma poteva pregare, lavorare gratis per i preti e sottostare alle loro leggi. Il diverso era mandato al rogo, come le streghe. Tutti i tempi pagani furono distrutti, poiché erano la casa del diavolo, oppure convertiti in tempi cristiani.

L’uomo Romano, il Civis Romanus, era bisessuale, non per scelta quanto per imporre il potere, spronato fin dall’infanzia a dominare e imporsi ovunque; in guerra, sui popoli nemici, con le armi e le leggi; in politica, nella società e su persone di rango inferiore, con la ricchezza o lo status sociale. Il Pater Familias, padrone assoluto usava il suo organo sessuale per procreare, dare piacere e imporre il dominio sugli altri. L’uomo che desiderava avere rapporti extraconiugali, doveva farlo con individui di rango inferiore ed evitare in caso di gravidanze che il nascituro un giorno potesse reclamare l’eredità. Non doveva mai fare sesso orale a una donna, poiché ritenuto un atto di sottomissione. Nella prima notte di matrimonio se il marito non riusciva a deflorare la sposa, quest’ultima doveva deflorarsi con una immagine in legno del dio Priapo, il quale era rappresentato seduto con un enorme fallo eretto. Per avere energia sufficiente ad affrontare la prima notte di nozze, le madri degli sposi collocavano un bicchiere di miele vicino al letto. Seneca considerava fortunato il marito la cui moglie si contentava di due amanti. Un epitaffio recitava: “Rimase per quarantun anni fedele alla stessa moglie.” Una rarità. Marziale fu il più grande divulgatore della vita sessuale sfrenata dei Romani.

Nelle famiglie dell’alto ceto, quando un ragazzo raggiungeva la pubertà, il padre lo accompagnava a un primo appuntamento con una prostituta. Le ragazze invece dovevano arrivare illibate al matrimonio. La verginità prematrimoniale non era solo una prerogativa delle famiglie nobili. Anche i ceti più bassi tendevano a imitare i comportamenti delle famiglie ricche, sia per darsi un tono e sia nella speranza che le ragazze avrebbero potuto sposare un uomo dell’alta società.

L’adulterio si consumava quando un uomo aveva relazioni sessuali con una donna sposata. Le relazioni con prostitute o schiave non erano considerate adulterio. Augusto, con la lex adulteriis coercendis, del 17 a.C., colpiva severamente chi commetteva questo reato. Il marito era obbligato a divorziare, pena l’accusa di proxenitismo. Il marito e il padre della donna avrebbero potuto ammazzare l’amante se sorpreso in flagrante con un plebeo. Le sanzioni per entrambi erano la perdita dei beni e l’esilio. Poi, la donna era obbligata a indossare uno speciale vestito e non poteva risposarsi, collocata nello stesso status delle prostitute.

Il sesso a Roma era molto praticato, anche con le prostitute, le quali costavano pochissimo. Tali donne avevano il problema di non dover restare incinta, quindi doveva usare dei metodi contraccettivi, i quali erano fatti con del budello di animali. Le donne prendevano dei piccoli gomitoli di lana, i quali, impregnati di grasso, venivano posti nella vagina per impedire agli spermatozoi di fare il loro tragitto. Poiché il problema non era sempre risolto, quando veniva inseminata si procedeva all’aborto, pratica brutale che metteva a rischio la vita della donna, tramite violenti movimenti, tramite salassi o bagni bollenti. Il parto cesareo era praticato quando la madre moriva, per salvare il nascituro.

Il lupanare era un’istituzione sociale, tesa a soddisfare le molteplici tendenze sessuali. L’ingresso conduceva in una sala dove c’erano delle celle chiamate fornices che originarono il verbo fornicare, oppure cellae meretriciae, con letti in muratura. Sulle porte d’ingresso e le pareti delle celle c’erano delle pitture murali erotiche che specificavano le specialità delle prostitute. Nei posti più raffinati i letti erano in legno, le stanze più rifinire e la biancheria pulita. Una sedia, un tavolino, un catino, una brocca e un asciugamano completavano lo scenario. A Pompei sono stati trovati oltre trenta bordelli, alcuni molto modesti. I lupanari a Roma erano riconoscibili da una particolare lanterna e dagli organi maschili disegnati sull’ingresso principale. A Roma i mestieri più infamanti erano quelli dell’attore, di chi praticava l’usura e della prostituzione. Se un patrizio doveva andarci, si camuffava con una parrucca o coprendosi il volto con una maschera.

Nel I secolo fu vietato l’introduzione nei lupanari di monete con l’effige imperiale. All’uopo fu coniata una moneta, chiamata spintria, tessera in bronzo, larga due centimetri, raffigurante una scena erotica su di un lato e un numero sull’altro che rappresentava il valore economico espresso in assi, per il pagamento delle prostitute. A Roma i bordelli erano diffusi nella Suburra e attorno al Circo Massimo. Oltre che nei lupanari, la prostituzione era praticava nei bagni pubblici, nelle taverne e nelle botteghe. Le prostitute erano chiamate lupe, dalle quali derivava la parola lupanare. Ce n’erano anche per omosessuali, frequentati anche da schiavi e gladiatori.

Tutte le opere filosofiche e letterarie Greche e Romane, a sfondo omosessuale, furono distrutte dai cristiani. Prima della conquista della Grecia i rapporti omosessuali a Roma erano osteggiati e giudicati riprovevoli. La pederastia era il vizio dei Greci, i quali giudicavano non solo le prestazioni dei ragazzi, ma anche le sue virtù, al contrario che a Roma, dove si badava alla bellezza e alle dimensioni del pene, anche se nelle statue, imitando quelle Greche era raffigurato piccolo. Con la conquista della Grecia, i Romani praticarono l’omosessualità con gli schiavi e i liberti. Un liberto poteva intrattenersi con schiavi e prostitute, ma era immorale avere una relazione con la moglie di un libero cittadino, con una ragazza o un ragazzo minorenne di buona famiglia o con un cittadino libero adulto. Il Romano doveva sempre dominare e mai essere dominato, penetrare e mai essere penetrato, per cui la penetrazione anale o il sesso orale era riservata alle prostitute e agli schiavi. Anche per le donne era disonorevole dedicarsi al sesso orale.

Le prostitute consideravano la fellatio la pratica più ripugnante che un cliente potesse chiedere e quindi anche il più costoso. Il cunnilingus era praticato a pagamento da alcuni uomini, verso quelle donne che lo richiedevano. Queste pratiche degradanti per l’esecutore, se scoperte, gli impedivano di votare. Le prostitute erano obbligate a vestirsi di una tunica nera e corta, per differenziarsi dalle altre donne. La statio cunnulingiorum era il posto dove le prostitute offrivano solo sesso orale.

Messalina, sposa dell’imperatore Claudio, aveva affittato una cella per saziare il suo appetito sessuale che praticava con lo pseudonimo di Licisca. Una volta scommise con altre prostitute che sarebbe riuscita a soddisfare un’intera centuria. Inutile ricordare che vinse la scommessa. Dove c’era un accampamento di soldati, non tardavano a presentarsi un manipolo di prostitute. La moralità dei giovani Romani non era lodevole. A sedici anni cominciavano a frequentare lupanari, bische clandestine e osterie. I bordelli dell’età imperiale erano lussuosi e prima del servizio richiesto, i clienti erano intrattenuti con danze e musiche. La menta era considerata un afrodisiaco e durante una guerra era proibita per non debilitare i soldati. Davanti a una corte, il popolino giurava di dire la verità, stringendosi i testicoli. Da qui la parola testare. Testimoniare.

Una delle donne di spettacolo più famose nella storia di Roma, si chiamava Licoride. Grazie alle sue doti amatorie frequentava la classe alta e anche Cicerone la frequentò. Era una donna bellissima in tutte le sue fattezze, grande amante e procacciatrice di eredità. Vi furono altre due artiste simili che tennero testa a Licoride, sia sul palcoscenico, cantando e danzando, sia tra i guanciali. Si chiamavano Arbuscola e Origine. Quest’ultima, in una delle sue tante imprese fece perdere la testa a un ragazzo di nobile e ricca famiglia, chiamato Marseo, il quale perse tutto il suo patrimonio per andarle dietro. Arbuscola, come la precedente, vissuta nel I secolo a.C., fu la protagonista di una commedia di Orazio, dopo averla sentita inveire contro il pubblico che la fischiava in un suo spettacolo, con la famosa frase:Satis est equitem mihi plaudere.” Mi basta che applaudano i cavalieri. La frase è rimasta nel lessico, a indicare superiorità verso rozze critiche e in maniera dispregiativa verso chi utilizza la propria arte solo per ingraziarsi i favori dei potenti.

Licoride, nata nel 70 a.C., era una donna desiderata da tutti gli uomini, riuscendo a farsi strada in una società maschilista, partendo dal teatro. Licoride era il suo cognome, Volumnia il suo nome onomatopeico. Il nome d’arte era Citeride, dall’isola di Citerà, lì dove nacque Venere. Licoride era una schiava di Publio Volumnio Eutrapelo, uomo ricco e inserito nel mondo dello spettacolo. I suoi attori e le sue attrici erano destinati agli spettacoli teatrali o a intime prestazioni nelle ville dei potenti dell’epoca. Si trattava di una schiava e così per inserirla nell’alta società, la liberò. La sua prima relazione importante l’ebbe nel 50 a.C., con Bruto. Qualche anno dopo, nel 49 a.C., fu amante di Marco Antonio, il quale frequentava la mondanità Romana. Fu Volumnio a spingere Licoride nelle braccia di Marco Antonio, per accrescere il suo potere e Licoride non si fece pregare. La loro unione destò molto scalpore a Roma, poiché entrambi erano famosi. All’epoca Marco Antonio era già sposato, ma andava in giro in lettiga con Licoride, per le strade di Roma, trattandola come una matrona. Questo avrebbe potuto rovinare non la reputazione di Marco Antonio, già ampiamente compromessa, quanto la sua carriera politica e militare. Passata la sbornia, dopo tre anni, nel 46 a.C., Antonio ruppe la relazione, anche per le pressioni che Giulio Cesare esercitava.

Nel 43 a.C., Licoride era nell’alcova di Cornelio Gallo, poeta elegiaco, parte del circolo letterario di Virgilio e Ovidio. Cornelio s’innamorò perdutamente di Licoride, la quale divenne sua musa ispiratrice. Poco dopo lei decretò la fine della storia, lasciandolo distrutto. Donna pragmatica e volitiva, stanca di melense poesie, decise di fuggire con un ufficiale dell’esercito Romano, Quinto Fufio Caleno, fedelissimo di Giulio Cesare, alla ricerca di nuovi orizzonti monetari. Licoride, dopo quest’ultimo colpo di testa, scompare dagli annali, ma molti secoli dopo molte meretrici si facevano chiamare Licoride e la sua gloria è giunta sino a noi, inalterata.




Testo tratto dal libro sull'Impero Romano: 

"Voci dall'Antica Roma"





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martes, 1 de abril de 2025

Curiosità del passato

 



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       CXVIII Exposición Individual de Fotografías:                    "Zapatos" del 12 al 27 de Abril,                               en la Galeria de Arte, MAXART.









Curiosità del passato

Il palazzo di Versailles, costruito nel XVII secolo, era sprovvisto dei bagni e gli escrementi umani erano gettati dalle finestre. Nel palazzo non vi era la minima igiene, anche se si preparavano banchetti per centinaia di persone. I giardini erano usati per defecare e orinare, anche se erano provvisti di uno dei sistemi idraulici più avanzati dell’epoca, alimentando le fontane attraverso chilometri di canali e acquedotti, ma nulla per migliorare la situazione igienica di chi lo abitava. All’epoca, le docce non erano usate, cosi come gli spazzolini da denti o la carta igienica, quindi, i nobili usavano i ventagli e i profumi per mitigare le tremende puzze che i loro corpi emanavano, lasciati sporchi per mesi e talvolta per anni, poiché i loro sontuosi vestiti e le loro elaborate acconciature non potevano occultare la situazione igienica del loro corpo. Si narra che Luigi XIV abbia fatto un solo bagno nella sua vita, lavando periodicamente parti del suo corpo. La maggior parte dei matrimoni si celebrava in giugno, poiché il primo bagno dell’anno avveniva in maggio e dopo un mese il lezzo era sopportabile. Tuttavia, per coprire lo sgradevole odore residuo, le spose si ornavano di un mazzo di fiori; tradizione giunta sino ai nostri giorni. Il bagno si eseguiva in una tina, usata da tutti i membri della famiglia. Il primo a usufruirne era il capofamiglia. Dopo aver lasciato il suo luridume nelle acque, toccava agli altri membri della famiglia immergersi nella tinozza, in ordine di importanza. Per gli ultimi il rischio di infezione era altissimo.

A tavola si usavano piatti di stagno, i quali al contatto con i pomodori si ossidavano, causando avvelenamenti, tanto che nei primi due secoli dall’arrivo del prodotto dalle Americhe, i pomodori furono considerati velenosi. La combinazione tra alcool e l’ossido di stagno che le tazze contenevano, poteva provocare stati di incoscienza simili alla narcolessia. Se capitava in strada, i passanti potevano pensare che l’individuo fosse deceduto. Quindi, il corpo veniva portato via e preparato per il funerale. Il defunto era posto sul tavolo di cucina, dove amici e parenti mangiavano, vegliando l’aspirante defunto, nella speranza che si svegliasse. Da qui nasce la tradizione di vegliare un defunto per circa 36 ore. In Inghilterra, per mancanza di spazio, i vecchi defunti venivano dissotterrati e sistemati negli ossari, mentre i nuovi defunti prendevano il loro posto. Aprendo le vecchie bare, alcune volte si trovavano graffi sul coperchio, segno che l’individuo era stato sepolto vivo. Così, nasce l’idea di legare al polso del cadavere una cordicella che tramite un foro, nel caso si fosse rivitalizzato, arrivava a una campanella che allertava un guardiano. Da quella pratica nacque il detto: “Salvato dalla campana.”   

Nel Rinascimento, le cortigiane erano circondate da un alone di mistero e fascino. Oltre alle abilità sociali e intellettuali, queste donne intriganti erano legate a delle curiosità insolite, come comunicare tra loro  tramite il linguaggio del ventaglio, con particolari movimenti e posizioni dello stesso. Le cortigiane indossavano anelli o pendenti a forma di chiave. Questi gioielli, otre a ornare, servivano a simboleggiare l’accesso alle loro stanze private. Le cortigiane indossavano piume colorate come accessori distintivi, dove ogni colore aveva un significato simbolico. La piuma rossa indicava la disponibilità agli incontri amorosi, mentre la piuma nera indicava uno stato di lutto o di malinconia. Le cortigiane portavano piccoli specchi rotondi, i quali, oltre a controllare il proprio aspetto, servivano per riflettere la luce sul volto desiderato per attirare l’attenzione. Le cortigiane avevano anche una tradizione insolita, legata alle loro calze. Quando una cortigiana decideva di abbandonare il suo mestiere, donava una delle sue calze a un ospite speciale, il quale si sentiva onorato.

Alla fine del 1.800, alcune città statunitensi approvarono delle leggi di natura discriminatoria che vietavano agli individui sgradevoli, mutilati e deformi di apparire in pubblico. Queste leggi proposte da un movimento sociopolitico aveva lo scopo di migliorare la genetica della popolazione, escludendo gli individui con disabilità fisiche o mentali, con il pretesto di un beneficio per la salute pubblica. L’applicazione delle leggi variava dalle multe, alla reclusione o all’allontanamento con la forza dei suddetti dagli spazi pubblici.

Si viveva meglio nella Roma Imperiale che in una città occidentale del XX secolo. Roma era il centro del mondo conosciuto e si avvaleva di tutte le conquiste socio tecnologiche che nei secoli aveva realizzato. Quindi, la vita dei Romani era piena di agi che alla fine dell’impero scomparvero. Nel medioevo tutta l’Europa si trasformò in un posto selvaggio, preda della malaria e della peste. Tutte le conquiste che faticosamente i Romani avevano raggiunto, scomparvero, preda della filosofia religiosa che prevedeva la sofferenza e la preghiera. Solo nel XX secolo l’umanità superò le conquiste che i Romani avevano raggiunto duemila anni prima.

 




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sábado, 1 de marzo de 2025

Confessioni di un burino

 



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       CXVII Exposición Individual de Fotografías:                 "In the City IV" del 8 al 23 de Marzo,                        en la Galeria de Arte, MAXART.













                      Confessioni di un burino

Tu me chiedi se credo nell’aldilà? Se credo che dopo la morte ce sia una vita ultraterena? Se un dio detta le regole della vita dell’universo? Ma! Che te devo di? Sino a quanno stavamo ar medio evo; finché c’era er sistema Tolemaico, ce potevi pure crede all’esistenza de Dio. Ce potevi pure crede alle sue punizioni. C’era solo la tera, la luna, er sole, tre pianetini. Le stelle erano quattro puntini sperduti nel cielo. L’universo era tutto li. Potevi pure crede che con noi giocava come er gatto cor topo. Potevi pure crede che se divertiva a spiarci, a guardá dal buco de la serratura, a spiá i nostri comportamenti e se nun te comportavi como se deve, te mandava all’inferno.

Ma, oggi… ammesso pure che esiste che io so de ampie vedute; ma tu hai visto quanta roba c’è la fori? Miliari de stelle, miliardi de galassie, de pianeti, nebulose, quazar, pulsar, buchi neri, oceani de materia oscura, fascie de neutrini, antimateria. Ma, ammesso pure che esiste, tu credi che uno che ha fatto tutta ‘sta robba, je puo fregá qualcosa se in questo sercio de pianeta de periferia noi bestemmiamo, rubbamo, ammazzamo, tradimo le mogli, ce ngoppamo uno co’ l’altro. Ma, tu credi veramente che la morale nostra possa esse la questione centrale dell’universo? Tu credi che a uno che ha fatto tutta stá robba je può interessá quarcosa de un ometto pieno de difetti che pratica capricci, che umilia e sporca la sua stessa casa? Nun ce credo proprio. De noi nun je importa gnente a nessuno. Nasciamo, pasciamo, morimo e finisce tutto li.

Semo scimmie. Abbiamo le stesse caratteristiche delle vacche, dei cani. Se te metti en quattro te n’accorgi. Nun te poi sbagliá. Ce ammaliamo perché dobbiamo morí e se more. Come capita a tutti. Tutto sta’ già scritto. More tutto. Muoiono pure le galassie e quindi morimo pure noi, tornando allo stato de prima de nasce. Il nulla. Le cose s’aggiusteno e se guasteno da sole. Nun poi cambiá l’ordine delle cose e nun te preoccupá, perché nun esiste nulla. La vita è un soffio. Oggi c’è vento e puoi morí. Domani c’è er sole e poi godé. Poi, morimo e bonanotte ar secchio. 

 

 




 
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sábado, 1 de febrero de 2025

Padre Pio

 



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       CXVI Exposición Individual de Fotografías:          "Abstracts and Ghosts" del 8 al 23 de Febrero,                  en la Galeria de Arte, MAXART.









Padre Pio

 

Il vero nome di Padre Pio era Francesco Forgione, nato il 25 maggio del 1887, a Pietrelcina, in pieno Sannio, nella provincia di Benevento. Ai tempi di Francesco la vita a Pietrelcina era dura. O ci si rompeva la schiena nei petrosi campi per sradicare un tozzo di pane, o ci si imboscava in un convento per sopravvivere meno faticosamente. Fu così che Francesco decise di entrare in un convento di frati cappuccini.

Nell’estate del 1918, poche settimane prima che finisse la Grande Guerra, nel convento di San Giovanni Rotondo, dov’era arrivato nel 1916, Padre Pio ricevette le stimmate. Cambiando il corso della sua vita, nel 1919 lo dichiarò agli inquisitori del Sant’Uffizio, attirando devozione, ma anche disprezzo. Quindi, nel giugno 1921, per verificare la veridicità del suo caso, ci furono otto giorni di indagini e interrogatori per il frate e i confratelli.

“Udii una voce che diceva, ti associo alla mia passione e ho visto questi segni, dai quali gocciolava sangue.”

Gli inquisitori gli chiesero delle febbri a temperature letali; dei dolori e delle lotte notturne col diavolo; del profumo di fiori; delle bilocazioni.

“Io non so come sia, né di che natura è la cosa, né molto meno ci do peso, ma, mi è accaduto di avere presente questa o quell’altra persona, questo luogo o quell’altro; non so se la mente si sia trasportata lì o era una rappresentazione del luogo o della persona che si era presentata a me, non so se col corpo o senza il corpo io sia stato presente…” 

Quando Giovanni Paolo II, a furor di popolo, il 2 maggio 1999 lo proclamò beato, ricordò le prove che dovette superare per arrivare a tale decisione, poiché esistevano anche atti accusatori dei detrattori, i quali furono chiamati, incomprensioni. Nella sua vita, per cinque volte Padre Pio è stato sottoposto a delle inchieste da parte del Sant’Uffizio, subendo interrogatori, intercettazioni, perquisizioni, restrizioni e divieti di celebrare messa in pubblico.   

Pio XI e Giovanni XXIII, papi dell’epoca sua più illustre, per usare un eufemismo, lo consideravano con sospetto. Il domenicano francese Paul Pierre Philippe, poi vescovo e cardinale, inviato da Papa Roncalli, alias Giovanni XXIII, a interrogare il vecchio frate, allora settantaquattrenne, lo apostrofò: “Un disgraziato che approfitta della sua reputazione di santo, per ingannare le sue vittime.” Nella relazione al Sant’Uffizio scrisse che si trattava della più colossale truffa nella storia della Chiesa. E se in seno alla Chiesa lo definivano così, solo i creduloni della fede e gli ignoranti come lui che aveva ordito il piano potevano credergli. 

Per le indagini, il domenicano francese aveva fatto forare le pareti della stanza dove Padre Pio riceveva la gente, per metterci dei microfoni, i quali, nelle udienze di fedeli riportarono il suono ripetuto di baci. Accusato di atti carnali, il frate si difese dicendo che non aveva mai baciato una donna in vita sua e spergiurava davanti a Dio che non aveva mai baciato neanche la mamma. 

Papa Giovanni XXIII temeva un immenso inganno, un disastro di anime, come annotava nei suoi diari del 1960, ma poi, si fece convincere dal suo vecchio amico Andrea Cesarano, arcivescovo di Manfredonia, il quale asseriva che quei rumori provenivano dai fedeli che gli baciavano con devozione le mani stigmatizzate.

Karol Wojtyla era un giovane prete che studiava a Roma, quando nel 1947 si recò a San Giovanni Rotondo, facendosi confessare da Padre Pio. Da ciò, nacque la leggenda più volte in seguito smentita dallo stesso Giovanni Paolo II che il frate gli avesse predetto l’elezione a Papa e l’attentato di Ali Agca. “Ma, non è vero niente.” Per Wojtyla lo strano era che i prodigi, più dei fedeli, avevano eccitato i detrattori che lo deridevano e lo sfruttavano per denaro o battaglie ideologiche, ma chi si recava nel suo convento per chiedergli un consiglio o confessarsi, lo identificava con il Cristo sofferente e risorto, restandone incantati. 

Un’autorità come padre Agostino Gemelli, frate francescano e medico, fondatore nel 1921 dell’università Cattolica a Roma che l’anno prima lo aveva incontrato, scrisse al Sant’Uffizio che si trattava di uno psicopatico ignorante che induce all’automutilazione e si procura artificialmente le stigmate, allo scopo di sfruttare la credulità della gente. 

Alla richiesta di spiegazioni sull’esistenza di una boccetta di acido fenico nel suo armadietto che si era procurato in farmacia, facendo pensare all’auto stigmatizzazione, il frate asseriva che gli serviva per disinfettare le siringhe, giacché quelli erano i mesi in cui l’influenza spagnola faceva sfracelli. In quel frangente anche gli scettici avevano dubbi, perché né l’acido fenico, né la polvere di veratrina avrebbero potuto procurare quel tipo di lesioni per cinquant’anni. Ma, sul santo più amato del novecento, venerato da milioni di persone in tutto il mondo, continuano a gravare forti sospetti. 








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