sábado, 1 de marzo de 2025

Confessioni di un burino

 



Per una corretta visone del blog si consiglia di     usare il computer. Con gli altri dispositivi la                          visione è imprecisa.



Para una correcta visión del blog se recomienda           usar la computadora. Con otros dispositivos la                             visión es imprecisa. 








       CXVII Exposición Individual de Fotografías:                 "In the City IV" del 8 al 23 de Marzo,                        en la Galeria de Arte, MAXART.













                      Confessioni di un burino

Tu me chiedi se credo nell’aldilà? Se credo che dopo la morte ce sia una vita ultraterena? Se un dio detta le regole della vita dell’universo? Ma! Che te devo di! Sino a quanno stavamo ar medio evo; finché c’era er sistema Tolemaico, ce potevi pure crede all’esistenza de Dio. Ce potevi pure crede alle sue punizioni. C’era solo la tera, la luna, er sole, tre pianetini. Le stelle erano quattro puntini sperduti nel cielo. L’universo era tutto li. Potevi pure crede che con noi giocava come er gatto cor topo. Potevi pure crede che se divertiva a spiarci; a guardá dal buco de la serratura, a spiá i nostri comportamenti e se nun te comportavi como se deve, te mandava all’inferno.

Ma, oggi… ammesso pure che esiste, che io so de ampie vedute, ma tu hai visto quanta roba c’è la fori? Miliari de stelle, miliardi de galassie, de pianeti, nebulose, quazar, pulsar, buchi neri, oceani de materia oscura, fascie de neutrini, antimateria. Ma ammesso pure che esiste, ma tu credi che uno che ha fatto tutta ‘sta robba, je puo fregá qualcosa se in questo sercio de pianeta de periferia, noi bestemmiamo, rubbamo, ammazzamo, tradimo le mogli, ce ngoppamo uno co’ l’altro. Ma, tu credi veramente che la morale nostra possa esse la questione centrale dell’universo? Tu credi che a uno che ha fatto tutta stá robba je può interessá quarcosa de un ometto pieno de difetti che pratica capricci, che umilia e sporca la sua stessa casa? Nun ce credo proprio. De noi nun je importa gnente a nessuno. Nasciamo, pasciamo, morimo e finisce tutto li.

Semo scimmie. Abbiamo le stesse caratteristiche delle vacche, dei cani. Se te metti  en quattro te n’accorgi. Nun te poi sbagliá. Ce ammaliamo perché dobbiamo morí e se more. Come capita a tutti. Tutto sta’ già scritto. More tutto. Muoiono pure le galassie e quindi moremo pure noi, tornando allo stato de prima de nasce. Il nulla. Le cose s’aggiusteno e se guasteno da sole. Nun poi cambiá l’ordine delle cose e nun te preoccupá, perché nun esiste nulla. La vita è un soffio. Oggi c’è vento e puoi morí. Domani c’è er sole e poi godé. Poi, morimo e bonanotte ar secchio. 

 

 




 
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sábado, 1 de febrero de 2025

Padre Pio

 



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       CXVI Exposición Individual de Fotografías:          "Abstracts and Ghosts" del 8 al 23 de Febrero,                  en la Galeria de Arte, MAXART.









Padre Pio

 

Il vero nome di Padre Pio era Francesco Forgione, nato il 25 maggio del 1887, a Pietrelcina, in pieno Sannio, nella provincia di Benevento. Ai tempi di Francesco la vita a Pietrelcina era dura. O ci si rompeva la schiena nei petrosi campi per sradicare un tozzo di pane, o ci si imboscava in un convento per sopravvivere meno faticosamente. Fu così che Francesco decise di entrare in un convento di frati cappuccini.

Nell’estate del 1918, poche settimane prima che finisse la Grande Guerra, nel convento di San Giovanni Rotondo, dov’era arrivato nel 1916, Padre Pio ricevette le stimmate. Cambiando il corso della sua vita, nel 1919 lo dichiarò agli inquisitori del Sant’Uffizio, attirando devozione, ma anche disprezzo. Quindi, nel giugno 1921, per verificare la veridicità del suo caso, ci furono otto giorni di indagini e interrogatori per il frate e i confratelli.

“Udii una voce che diceva, ti associo alla mia passione e ho visto questi segni, dai quali gocciolava sangue.”

Gli inquisitori gli chiesero delle febbri a temperature letali; dei dolori e delle lotte notturne col diavolo; del profumo di fiori; delle bilocazioni.

“Io non so come sia, né di che natura è la cosa, né molto meno ci do peso, ma, mi è accaduto di avere presente questa o quell’altra persona, questo luogo o quell’altro; non so se la mente si sia trasportata lì o era una rappresentazione del luogo o della persona che si era presentata a me, non so se col corpo o senza il corpo io sia stato presente…” 

Quando Giovanni Paolo II, a furor di popolo, il 2 maggio 1999 lo proclamò beato, ricordò le prove che dovette superare per arrivare a tale decisione, poiché esistevano anche atti accusatori dei detrattori, i quali furono chiamati, incomprensioni. Nella sua vita, per cinque volte Padre Pio è stato sottoposto a delle inchieste da parte del Sant’Uffizio, subendo interrogatori, intercettazioni, perquisizioni, restrizioni e divieti di celebrare messa in pubblico.   

Pio XI e Giovanni XXIII, papi dell’epoca sua più illustre, per usare un eufemismo, lo consideravano con sospetto. Il domenicano francese Paul Pierre Philippe, poi vescovo e cardinale, inviato da Papa Roncalli, alias Giovanni XXIII, a interrogare il vecchio frate, allora settantaquattrenne, lo apostrofò: “Un disgraziato che approfitta della sua reputazione di santo, per ingannare le sue vittime.” Nella relazione al Sant’Uffizio scrisse che si trattava della più colossale truffa nella storia della Chiesa. E se in seno alla Chiesa lo definivano così, solo i creduloni della fede e gli ignoranti come lui che aveva ordito il piano potevano credergli. 

Per le indagini, il domenicano francese aveva fatto forare le pareti della stanza dove Padre Pio riceveva la gente, per metterci dei microfoni, i quali, nelle udienze di fedeli riportarono il suono ripetuto di baci. Accusato di atti carnali, il frate si difese dicendo che non aveva mai baciato una donna in vita sua e spergiurava davanti a Dio che non aveva mai baciato neanche la mamma. 

Papa Giovanni XXIII temeva un immenso inganno, un disastro di anime, come annotava nei suoi diari del 1960, ma poi, si fece convincere dal suo vecchio amico Andrea Cesarano, arcivescovo di Manfredonia, il quale asseriva che quei rumori provenivano dai fedeli che gli baciavano con devozione le mani stigmatizzate.

Karol Wojtyla era un giovane prete che studiava a Roma, quando nel 1947 si recò a San Giovanni Rotondo, facendosi confessare da Padre Pio. Da ciò, nacque la leggenda più volte in seguito smentita dallo stesso Giovanni Paolo II che il frate gli avesse predetto l’elezione a Papa e l’attentato di Ali Agca. “Ma, non è vero niente.” Per Wojtyla lo strano era che i prodigi, più dei fedeli, avevano eccitato i detrattori che lo deridevano e lo sfruttavano per denaro o battaglie ideologiche, ma chi si recava nel suo convento per chiedergli un consiglio o confessarsi, lo identificava con il Cristo sofferente e risorto, restandone incantati. 

Un’autorità come padre Agostino Gemelli, frate francescano e medico, fondatore nel 1921 dell’università Cattolica a Roma che l’anno prima lo aveva incontrato, scrisse al Sant’Uffizio che si trattava di uno psicopatico ignorante che induce all’automutilazione e si procura artificialmente le stigmate, allo scopo di sfruttare la credulità della gente. 

Alla richiesta di spiegazioni sull’esistenza di una boccetta di acido fenico nel suo armadietto che si era procurato in farmacia, facendo pensare all’auto stigmatizzazione, il frate asseriva che gli serviva per disinfettare le siringhe, giacché quelli erano i mesi in cui l’influenza spagnola faceva sfracelli. In quel frangente anche gli scettici avevano dubbi, perché né l’acido fenico, né la polvere di veratrina avrebbero potuto procurare quel tipo di lesioni per cinquant’anni. Ma, sul santo più amato del novecento, venerato da milioni di persone in tutto il mondo, continuano a gravare forti sospetti. 








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miércoles, 1 de enero de 2025

Saturnalia

 


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       CXV Exposición Individual de Fotografías:                 "Manos y Pies IV" del 11 al 26 de Enero,                       en la Galeria de Arte, MAXART.



























































































































Lo scultore Ernesto Biondi nacque nel 1854, a Morolo, Frosinone. Nel 1870, si trasferì a Roma, frequentando per un breve periodo l’Accademia di San Luca. Poi, proseguì la sua carriera da autodidatta. Fu uno scultore verista, interessato a temi sociali, letterari e storici. Molte opere richiamano i valori socialisti e repubblicani, nei quali l’artista s’identificava. Dal 1883, fece realizzare tutte le sue opere in bronzo, presso la fonderia romana di Alessandro Nelli.

I Saturnali, opera esposta nella Galleria di Arte Moderna di Roma, (come si vede non curata come meriterebbe) erano una festività Romana dedicata al dio Saturno. I Saturnali si svolgevano dal 17 al 23 dicembre. La gente, con grandi banchetti e sacrifici, si scambiavano auguri e piccoli doni. Da tale festività deriva il nostro Santo Natale.

Durante i festeggiamenti l’ordine sociale era sovvertito e gli schiavi  diventavano uomini liberi. Uno di loro veniva eletto princeps e conferito di ogni potere. Vestito con una buffa maschera dai colori sgargianti, tra i quali spiccava il rosso, colore degli dei, personificava Saturno, il dio preposto alla custodia delle anime dei defunti, ma anche protettore delle campagne e dei raccolti. Si credeva che nel periodo invernale, uscito dalle profondità del suolo, il dio vagasse tra i territori dormienti. Offrendo doni e festività in suo onore, era indotto a ritornare nell’aldilà, dove avrebbero favorito i raccolti della stagione estiva.

Saturno fu il dio dell’età dell’oro, quando gli uomini vivevano felici nell’abbondanza e nell’uguaglianza e lo scopo dei Saturnali era rievocare quelle condizioni idilliache. Pur essendo una festa religiosa, si manifestava con sfilate carnevalesche





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