sábado, 1 de enero de 2022

Carmine Crocco IV

 


       LXXIX Exposición Individual de Fotografías:         "Paisajes Internos Dominicanos II" del 7 al 22            de Enero, en la Galeria de Arte, MAXART. 




Vita del brigante lucano Carmine Crocco 

Quarta e Ultima Parte


Il 14 settembre 1863, a Rionero, Giuseppe Caruso, fino a quel momento uno dei migliori aiutanti di Carmine Crocco, lasciò la banda e rivelò informazioni sull’organizzazione al generale Emilio Pallavicini, il quale fece arrestare tutti i parenti dei briganti menzionati da Caruso, ordinò la sorveglianza delle case sospette e fece travestire gruppi di soldati da briganti. Per queste misure, il numero di scontri a fuoco favorevoli al regio esercito aumentò e i briganti catturati, invece di essere giudicati da un tribunale militare, erano freddati sul posto. Anche i notabili che avevano fatto promesse d’aiuto a Crocco, intuendo la fine prossima della sua associazione, presero le distanze per opportunistici sentimenti liberali. Con i suoi pochi seguaci, Crocco fu accerchiato dai Cavalleggeri di Monferrato e di Lucca e costretto a dividere la sua banda, in gruppi ancora più piccoli, nei boschi di Venosa e Ripacandida. Li trascorse i mesi invernali, ritornando alla ribalta nel successivo aprile, alla guida di soli 15 uomini. Il 25 luglio 1864, le truppe di Pallavicini lo sorpresero sull’Ofanto, decimando il suo drappello, riconoscendogli le grandi qualità militari e di guerriglia.

Crocco riuscì a scappare, tallonato dai regi bersaglieri. Evitando i centri abitati e attraversando monti e foreste, giunse con alcuni suoi uomini nello Stato Pontificio, il 24 agosto 1864, sperando di poter incontrare a Roma, Poi IX, il quale aveva sostenuto la causa legittimista. Ma, Carmine fu catturato il giorno seguente a Veroli, dalla gendarmeria del papa e incarcerato a Roma. Gli eventi suscitarono in lui una profonda delusione, anche perché oltre all’arresto gli fu confiscata una cospicua somma di denaro. Il 25 aprile 1867, a Civitavecchia, Crocco fu imbarcato su un vapore delle Messaggerie Imperiali Francesi, per Marsiglia. Giunto nei pressi di Genova, il governo italiano intercettò il vascello catturando Crocco, ma Napoleone III ne reclamò il rilascio, sostenendo che non avessero il diritto d’arresto su una nave di un altro Stato. Dopo un breve periodo di detenzione a Parigi, Crocco fu rispedito nello Stato Pontificio, a Paliano e con la presa di Roma, da parte dei Sabaudi, del 1870, passò nelle mani dello Stato italiano, traferito prima ad Avellino e poi a Potenza.

Per la fama raggiunta, durante i passaggi da una prigione all’altra, numerose persone accorrevano per vederlo. Durante il processo tenuto presso la Corte Criminale di Potenza, al brigante furono imputati 67 omicidi, 7 tentati omicidi, 4 attentati all’ordine pubblico, 5 ribellioni, 20 estorsioni, 15 incendi di case, con un danno di oltre 1.200.000 lire. Dopo 3 mesi di dibattimento, l’11 settembre 1872, la Corte di Assise di Potenza, deliberò la condanna a morte, con le accuse di omicidio volontario, formazione di banda armata, rapina, sequestro di persona e ribellione contro la forza pubblica. Poi, con decreto reale del 13 settembre 1874, la pena fu misteriosamente commutata in lavori forzati a vita. Altri briganti con capi d’imputazione simili furono giustiziati. Le ragioni furono a sfondo politico e lo Stato italiano subì il volere francese. Crocco durante l’interrogatorio, sostenne che le autorità papali non poterono liberarlo, poiché sarebbero state accusate dal Governo italiano di favoritismo verso i briganti. Dopo la sentenza, il brigante fu trasportato nel carcere di Santo Stefano e poi in quello di Portoferraio, in provincia di Livorno, dove passò il resto dei suoi giorni. Durante la vita da carcerato, Crocco si mantenne calmo e disciplinato. Rispettato dagli altri detenuti per l’autorità del suo nome, non si unì mai alle proteste e baruffe degli altri carcerati, prestando soccorso ai necessitati. 

Nel carcere di Santo Stefano, fu visitato per dieci mesi dal criminologo Pasquale Penta. Nonostante il direttore del presidio lo definiva pericolosissimo e da tenere sotto stretta osservazione, Penta non riscontrò in lui tali necessità.

“Capace di grandi reati, ma anche di generosità, di sentimenti nobili, di belle azioni, la causa della sua carriera criminale è il germe della pazzia materna. Nella sua attività criminale fu autore di mille delitti, saccheggi di città, incendi, omicidi, ricatti, estorsioni, ma, allo stesso tempo cercò di tenere a bada i suoi bestiali subalterni e trattò a tu per tu con i generali italiani. Imponeva che fossero rispettate le donne oneste, maritate e zitelle, che non si facesse del male oltre il necessario e non si eccedesse nella vendetta, per compiere la quale era inesorabile. A molte ragazze che non avevano come maritarsi, regalò denaro e ai poveri contadini comprò armenti ed utensili di lavoro.”

Vincenzo Nitti, figlio del medico massacrato a Venosa, militare della Guardia Nazionale e testimone oculare dei fatti, lo considerò un ladro per indole, ma anche un brigante non comune, per astuzia, ardire e per generosità brigantesca. Nel 1902, a Portoferraio, giunsero gli studenti di medicina legale dell’Università di Siena, del professore Salvatore Ottolenghi, per intervistare i condannati, a scopo scientifico. Ottolenghi ebbe un colloquio con Crocco, considerato il vero rappresentante del brigantaggio dei tempi celebri, definendolo il Napoleone dei briganti. L’intervista fu pubblicata l’anno successivo da Romolo Ribolla, studente di Ottolenghi, nell’opera, Voci dall’ergastolo. Durante la conversazione l’ex brigante, ormai vecchio, con problemi fisici e dichiaratosi pentito del suo passato, raccontò la sua vita, lasciandosi andare anche al pianto. Elogiò Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II, per avergli concesso la grazia, anche se negli scritti autobiografici, il ringraziamento non era per aver avuto salva la vita, ma per aver preservato i suoi familiari dall’obbrobrio di sentirsi dire che fossero parenti dell’impiccato. Dichiarò d’essere rimasto scosso dall’assassinio del re Umberto I, ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci. Il suo desiderio era morire nel paese natio, ma Crocco si spense nel carcere di Portoferraio, il 18 giugno 1905, all’età di 75 anni, di cui gli ultimi 29 passati in detenzione.

Carmine, dotato di un fisico robusto e un’intelligenza fuori dal comune, era alto un metro e settantacinque centimetri. Fu legato a una donna chiamata Olimpia. In seguito ebbe una relazione con Maria Giovanna Tito, conosciuta quando si aggregò alla banda, mettendo fine alla relazione con Olimpia. Poi, la Tito fu lasciata, poiché Carmine s’invaghì della vivandiera di Agostino Sacchitiello, di Sant’Agata di Puglia, luogotenente di Crocco. Nonostante la fine della loro relazione, Giovanna continuò a servirlo fedelmente, fino a quando nel 1864, fu arrestata. Carmine ebbe una relazione anche con Filomena Pennacchio, poi compagna del suo aiutante Giuseppe Schiavone.

Durante la detenzione, Carmine Crocco iniziò la stesura delle sue memorie, realizzata in tre manoscritti, ma il terzo fu smarrito dal professor Penta. Elaborato con l’ausilio del capitano Eugenio Massa, fu pubblicato, includendo l’interrogatorio di Caruso, nell’opera, Gli ultimi briganti della Basilicata: Carmine Donatelli Crocco e Giuseppe Caruso, 1905. Le sue memorie sono ancora oggetto di dibattito. Secondo Pedio Tommaso, alcuni episodi non erano fedeli. Benedetto Croce disse che le memorie fossero bugiarde. Basilide Del Zio considerò veri gli scritti, per la descrizione esatta di persone, luoghi, paesi, campagne, anche se Crocco mentì in molti punti, occultando molte sue brutalità. Indro Montanelli disse che si trattava di un componimento viziato dall’enfasi e dalle reticenze, ma descrittivamente efficace e sincero sulla vita dei briganti. L’opera fu pubblicata più volte da diversi autori, quali Tommaso Pedio, Manduria, Lacaita, 1963; da Mario Proto, Manduria, Lacaita, 1994; da Valentino Romano, Bari, Mario Adda Editore, 1997. Una versione che non subì alcuna revisione linguistica fu pubblicata dall’antropologo Francesco Cascella, nell’opera, Il brigantaggio: ricerche sociologiche e antropologiche, nel 1907. Benché una parte della storiografia dell’Ottocento e inizi del Novecento lo considerasse un ladro e un assassino, dopo la seconda metà del Novecento fu rivalutato come un eroe popolare, anche se la sua figura rimane controversa.

 




 




 


Alcuni luogotenenti di Carmine Crocco:

Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco, di Avigliano, condannato per aver ucciso un aggressore, evase dandosi alla macchia. Si aggregò a Crocco, diventando uno dei suoi più brillanti luogotenenti. Conosciuto per la sua brutalità, non compì nessun gesto generoso. Fu ucciso dalle guardie nazionali, in una imboscata.

Giuseppe Caruso, detto Zi Beppe, di Atella, guardiano campestre, si diede al brigantaggio, dopo aver ucciso una Guardia Nazionale, nel 1861. Tradì Carmine informando le autorità, decretando la sua fine. Fu ricompensato con la nomina a guardia forestale di Monticchio.

Vincenzo Mastronardi, detto Staccone, di Ferrandina, evase dal carcere per reati comuni, nel 1860. Come Crocco, non ricevette la grazia dopo aver aderito ai moti unitari. Catturato, fu ucciso nel 1861.

Teodoro Gioseffi, detto Caporal Teodoro, di Barile, guardia campestre. Arrestato, fu condannato ai lavori forzati a vita.

Francesco Fasanella, detto Tinna, di San Fele, ex militare borbonico, tornato al suo paese fu schernito per averli serviti, soprattutto da Felice Priora, un tenente della guardia nazionale. Un giorno Priora gli diede uno schiaffo, Tinna lo spinse per terra e fuggì nei boschi. La moglie, incinta di sette mesi, fu fucilata per ordine di Priora. Tinna ammazzò il tenente, unendosi a Crocco. Si costituì nel 1863. Condannato a vent’anni di reclusione, fu rilasciato nel 1884, tornando nel paese natio.

Giuseppe Schiavone, detto Sparviero, di Sant'Agata di Puglia, sergente borbonico, s’unì ai briganti di Crocco per non prestare giuramento all’esercito italiano. Tra quelli meno efferati, fu condannato a morte tramite fucilazione.

Donato Antonio Fortuna, detto Tortora, di Ripacandida, mandriano, ex militare borbonico, si dette alla macchia dopo aver rifiutato di arruolarsi nell’esercito dei Savoia. Ereditò da Crocco, la banda del brigante Di Biase, dopo la sua morte. Costituitosi a Rionero, fu condannato nel 1864, ai lavori forzati a vita.

Giovanni Fortunato, detto Coppa, di San Fele, da Crocco definito il più feroce, temuto dai suoi stessi commilitoni. Non provava pietà nemmeno verso le persone a lui più vicine, infatti uccise suo fratello perché aveva saccheggiato una masseria, senza il suo consenso. Figlio illegittimo di un barone e di una popolana, crebbe nella famiglia di Crocco, il quale era molto legato a lui. Arruolatosi nell’esercito borbonico e ritornato a San Fele, dopo la caduta del regno delle Due Sicilie, fu insultato e picchiato da alcuni compaesani, unendosi alla banda del suo amico. Fu assassinato nel giugno 1863, forse da Donato Tortora Fortuna, per riparare alla violenza carnale nei confronti della sua donna, Emanuela, dopo aver ricevuto il permesso da Ninco Nanco. In un’intervista del 1887, Francesco Tinna Fasanella s’accusò dell’omicidio, poiché diceva che Fortunato voleva ogni giorno qualcuno da uccidere.

Pasquale Cavalcante, di Corleto Perticara, ex soldato borbonico, tornato nel suo paese natale fu umiliato. Poi, una guardia nazionale, durante un diverbio con la madre, la picchiò e le ruppe una costola. Cavalcante vendicò sua madre uccidendo l’aggressore. Unendosi all’armata di Crocco, fu uno dei comandanti della cavalleria. Catturato dopo la soffiata di Gennaro Aldinio, fu condannato a morte a Potenza, il primo agosto del 1863. Prima di essere giustiziato disse: “Merito la morte perché sono stato assai crudele, contro parecchi che mi caddero tra le mani. Ma merito anche pietà e perdono perché contro mia indole, mi hanno spinto al delitto. Ero sergente di Francesco II e tornato a casa come sbandato, mi si tolse il bonetto, mi si lacerò l’uniforme, mi si sputò sul viso e poi non mi si diede più un momento di pace, perché facendomi soffrire sempre ingiurie e maltrattamenti, si cercò pure di disonorarmi una sorella. Accecato dalla rabbia e dalla vergogna, non vidi altra via di vendetta che quella dei boschi e così, per colpa di pochi, divenni feroce e crudele contro tutti. Io sarei vissuto onesto, se mi avessero lasciato in pace. Ora muoio rassegnato e Dio vi liberi dalla mia sventura.”

Vito di Gianni, detto Totaro, di San Fele, ex gendarme borbonico, fu tra gli ultimi luogotenenti a essere consegnato alla giustizia, decretando la fine dell’egemonia di Crocco. Fu arrestato nel febbraio 1865, convinto alla resa da Giuseppe Lioy, un sacerdote di Venosa, al quale Vito rispose perentorio: “Fummo calpestati. Noi ci vendicammo. Ecco tutto.”



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