sábado, 1 de agosto de 2020

Neanderthal





       LXII  Exposición Individual de Fotografías:                    "Caballos" del 8 al 23 de Agosto,                             en la Galeria de Arte, MAXART.





L’uomo di Neanderthal
Un gruppo di archeologi dell’Università di Bristol, ha ritrovato in due siti archeologici in Spagna, delle collane di conchiglie perforate e dipinte che l’uomo di Neanderthal, 50.000 anni fa, indossava appesi al collo, con un cordino. Nel passato si pensava che il Neanderthal fosse un essere rozzo e carente, ma dopo questa scoperta, si può ipotizzare che aveva capacità cognitive più avanzate del previsto. Si auto identificava e possedeva un pensiero simbolico. Sapeva mischiare e impastare i colori e dipingere il corpo, producendo il nero con l’ematite e la pirite, ma anche il giallo, il rosso e il viola, come gli aborigeni australiani. Si ornava con grandi e vistose penne d’uccello, esibendole come simbolo di potere e autorità, come gli Indiani d’America. Altri rinvenimenti avvenuti in una grande grotta di Fumane, sui monti Lessini, Verona, dimostrano che i nostri cugini, erano cognitivamente vicini a noi.   
I Sapiens ebbero contatti con i Neanderthal e con i Denisovans, dopo la loro migrazione dall’Africa, tra 50.000 e 80.000 anni fa, assimilando nei loro cromosomi un frammento di DNA di quegli ominidi, oggi presente nel 4% degli esseri umani di tutto il mondo, a eccezione degli Africani. La ricerca di Peter Parham, professore di biologia e immunologia alla Stanford University School of Medicine, California, sostiene che se i nostri antenati non si fossero incrociati con i Neanderthal e con altri ominidi, oggi saremmo più vulnerabili alle malattie.
La dieta di un nostro antico parente, l’Australopithecus Africanus, vissuto oltre due milioni di anni fa, era composta soprattutto di frutta, foglie, erbe e radici. Analizzando gli elementi chimici presenti nei denti fossili di questa specie, si è ricostruito il comportamento delle mamme verso la loro prole. Dopo l’allattavano di circa un anno, cominciavano lo svezzamento, con l’integrazione di cibi che gli adulti erano soliti consumare. Quando nell’ambiente le risorse scarseggiavano, le mamme ritornavano ad allattare la prole, come accade agli oranghi e i babbuini che in questi casi, li allattano sino a 8-9 anni, mentre nell’Australopithecus Africanus, la ripresa dell’allattamento, poteva continuare fino ai 5-6 anni. Un allattamento così prolungato aveva però ripercussioni nella fecondità della specie, aumentando gli anni che intercorrevano tra un parto e l’altro.




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