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CXXIV Exposición Individual de Fotografías: "Caribbean Faces X" del 11 al 26 de Octubre, en la Galeria de Arte, MAXART.
I Romani
Civis romanus sum. Sono un cittadino Romano. Quando ci si
poteva permettere il lusso di dire questa frase, la vita del dicitore era molto
diversa da quelli che non se lo potevano permettere. Ottenere la cittadinanza
Romana non dipendeva dalla razza, né dalla provenienza. I Romani non erano
razzisti, ma, bisognava sottostare a molte regole, come l’avvenuta
romanizzazione, cioè l’assorbimento dei valori che caratterizzava un Romano ed
esserne degno. Per esempio, chi aveva combattuto per più anni nell’esercito
Romano, la acquisiva.
Dopo un onorevole percorso, uno schiavo poteva diventare
un liberto, cioè libero e poi, acquisire la cittadinanza per meriti. I valori
principali dei Romani erano incarnati nei concetti del mores maiorum che indicava
i costumi, le tradizioni degli antenati, i comportamenti, i valori, le credenze
che tenevano unito il popolo ed erano basate su cinque virtù fondamentali: fides,
pietas, majestas, virtus, gravitas e altre minori come dignitas, clementia,
amicitia, aequitas, decorum, exemplum, pudor, humanitas. Ottaviano Augusto, da
primo imperatore, scrisse sullo scudo aureo conferitogli, le qualità principali
che i Romani dovevano avere: virtus, clementia, iustitia e pietas.
Fides era la fedeltà, la lealtà, la fiducia, l’onestà tra
i cittadini. Confidare sulla parola, senza contratti, né testimoni. In tutte le
culture antiche, i contratti verbali erano frequenti, ma quando la buona fede
era tradita, la persona offesa poteva intentare una causa.
Il primo tempio in onore di Fides, risale a Numa
Pompilio, secondo re di Roma. Era la dea della buona fede, descritta come una vecchia
donna, ma rappresentata giovane. Si riteneva che la Fides abitasse nella mano
destra dell’uomo, mano usata per giurare. In seguito il gesto fu eseguito in
tutti i tribunali del mondo antico e anche in quelli moderni, alzandola o mettendola
su un libro civile o sacro.
Pietas non era la pietà secondo la nostra accezione.
La Pietas era il rispetto verso gli Dei, la patria, i genitori, i parenti e famiglia.
All’inizio riguardava la famiglia e il rispetto tra coniugi. Poi, l’accezione
del termine si estese tra uomo e divinità; un dovere morale nell’osservanza dei
riti e nel rispetto per gli dei.
Cicerone, nel De Inventione, illustra la pietas come il
rispetto del cittadino nei confronti dello Stato, poi, definita nel De
republica, pietas maxima. Virgilio nell’Eneide identifica la pietas con l’humanitas
e la misericordia, trasformandosi da rispetto per i consanguinei, a pietà per
la sofferenza altrui.
Majestas era la fierezza del popolo che rappresentavano.
Essere fieri dello Stato come rappresentante del popolo. La laesa majestatis, era
un crimine verso lo Stato, verso l’imperatore o il Senato. Majestas era anche l’essere
fieri dell’appartenenza a un popolo o a una razza.
Virtus deriva dal termine latino vir, uomo e rappresentava
l’ideale del maschio Romano. Il poeta Gaio Lucilio sostiene che è virtus per un
uomo, distinguere il bene dal male, conoscere l’inutile, il vergognoso, il
disonorevole.
Gravitas era la tradizione, la dignità, l’autorità, il
controllo. Questo contegno del periodo arcaico e in parte anche repubblicano,
in seguito fu associato alla gentilezza, cortesia e disponibilità. Di fronte
alle avversità, un Romano doveva essere imperturbabile.
Dalla cultura Greca, i Romani impararono la dialettica,
la filosofia, la logica, applicate al diritto, trasformandolo da
tradizionalista, a pratico. Catone il Censore si oppose all’ellenizzazione, ribadendo
gli antichi valori e virtù Romane, contro il degenerare dei costumi del
pensiero Greco. Secondo Cicerone i valori Greci dell’otium e dell’humanitas,
favorivano l’epicureismo e il disinteresse per la politica, in antitesi con il
suo pensiero secondo il quale un Romano doveva interessarsi principalmente alla
politica e alla vita pubblica.
Un vero Romano non ostentava, non si vantava, non si
ubriacava, non trascurava la famiglia, né i propri beni. Un vero Romano aveva
un portamento tranquillo e dignitoso. L’oratore che doveva affascinare la
platea lo faceva con modi eleganti, con voce chiara e contenuta.
L’università di
Roma, La Sapienza, congiuntamente con l’università di Vienna e quella di
Stanford, hanno recuperato il DNA dei resti di centoventisette Romani, in
ventinove siti archeologici, in una linea temporale di migliaia di anni.
Comparando gli studi tra le tre università, i risultati riportano che nel
mesolitico che corrisponde al periodo tra gli undicimila e i novemila anni fa,
al temine dell’ultima glaciazione, i popoli Italici non ebbero influenze e
interazioni con popoli di altre zone, in un periodo di grande stagnazione. Nel
neolitico, da 8.000 a 3.400 anni fa, l’uomo scopre l’agricoltura e
l’allevamento degli animali, diventando più stanziale, cambiando radicalmente
il suo modo di vivere. Le genti che vissero in quel periodo nell’attuale Italia,
provenivano dalla Grecia, dalla Turchia e dall’Iran.
Nell’età del
bronzo, tra il 3.400 e il 2.600 anni fa, sono state trovate tracce asiatiche e
ucraine con ulteriori migrazioni. Le mescolanze di razze già in quell’epoca era
un fatto rilevante. Nel periodo imperiale, quando Roma era la più grande città
del mondo antico, le mescolanze subirono ancora un’impennata. Nel V secolo ci
fu un’inversione di tendenza, in quanto la penisola italica risultava invasa
dai popoli dell’Europa del nord.
I Romani erano comprensivi con i popoli
conquistati. Evitavano ritorsioni dopo la vittoria, stanziavano milizie per
scoraggiare le rivolte, le quali ricostruivano ciò che la guerra aveva
distrutto. Le persecuzioni cristiane non furono attuate per cause religiose, ma
solo per la mancata accettazione dell’imperatore come capo supremo, da parte
dei popoli conquistati.
I cristiani furono perseguitati sino alla fine
del III secolo, quando la situazione s’invertì e a essere perseguitati
furono i pagani. Costantino aveva cambiato, per motivi strutturali e di
opportunità, l’ordine delle cose; ma la nuova religione, con le sue false
regole di libertà e uguaglianza non condannò la schiavitù. La Chiesa Cattolica
creò un potere gerarchico, assolutista e temporale, con possedimenti sempre più
vasti, cadendo nei peccati da loro stessi deprecati. Tra l’altro, solo il papa
poteva sancire la corona di un imperatore.
L’altezza media
della popolazione Romana, all’epoca dei Cesari, era di 1,65 metri per gli
uomini e di 1,55 metri per le donne. Il peso medio era di sessantacinque chili
per gli uomini e cinquanta per le donne. La vita media di un Romano era di
quarant’anni e di trenta per una donna, poiché molte donne morivano di parto e
tanti uomini morivano in guerra. La lapide del liberto Lucio Sutorio Abascanto,
morto a novanta anni recitava: ... qui vixit annis LXXXX... Per l’epoca, un
vero matusalemme. Ma era l’eccezione.
I bambini Romani affascinati nel sentire le gesta dei
guerrieri, si affrontavano tra di loro in finti combattimenti. I maschietti
giocavano alla guerra, battendosi con spadine di giunco, a cavallo di una
canna, su carrozzini trainati da capre o altri animali domestici o giocando a
nascondino, a palla, a dadi. Le bambine giocavano con il cerchietto, lanciato
con due bacchette. Giocavano a palla, lanciando noci o con le bambole. La mia
generazione non faceva giochi molto diversi.
Nella ricorrenza del solstizio d’inverno, i bambini
ricevevano dei doni. I padri erano severi con loro, mentre le madri erano più
affettuose. A quell’età i bambini non erano equiparati a esseri umani e per lo
stesso motivo, gli Etruschi non seppellivano i neonati nella tomba di famiglia.
Per i Romani la formazione dei giovani spettava alla famiglia e solo in
seguito, al precettore o alla scuola. I bambini non potevano fare il bagno con
acqua calda e dovevano dormire e mangiare poco. L’educazione primaria tendeva a
sviluppare attitudini morali e fisiche, lasciando la cultura a una fase
successiva.
Qualsiasi eccesso era da evitare. La continentia, l’eccessiva
devozione per gli Dei, l’eccesso di cibo o di sesso, ma anche l’astinenza dai
piaceri della vita. Ogni esagerazione, tranne il rispetto delle leggi e la
difesa della patria, era aberrata. Orazio dice che c’è una misura in tutte le
cose. Vi sono dei precisi confini e dove superati si perde la giustezza delle
cose. Nessuno nasce senza difetti, quindi il migliore è chi ne ha meno. Chi chiede
indulgenza per i propri difetti, deve anche concederlo agli altri. Il denaro
doveva essere speso per Roma e non per il piacere personale.
A Roma i pericoli cominciavano dalla
nascita. Infatti, se si aveva la sfortuna di nascere femmina o minorato, il padre
aveva il diritto di decretarne la morte, tramite esposizione. Mentre, un neonato maschio e sano, dopo otto giorni
dalla nascita, con una solenne cerimonia era ricevuto dalla sua gens, gruppo di
famiglie che avevano un comune antenato. Tramite la sua opera il figlio maschio
avrebbe aiutato i genitori e curato alla fine della loro vita la loro tomba,
celebrando i dovuti sacrifici, per permettere loro di entrare nell’eden. I neonati erano fasciati come mummie, lasciando fuori
solo la testa e tale usanza si protrasse sino alla metà del XX secolo. L’esposizione
avveniva nelle vicinanze di latrine o discariche, dove il neonato moriva di
fame o di freddo o straziato da animali. A Roma, nel Foro Olitorio c’era la
colonna Lattaria, dove i bambini erano lasciati nella speranza d’essere nutriti
da altri.
Plutarco riteneva la povertà dei genitori un’attenuante
all’abbandono. Lo storico Musonio Rufo denunciava i genitori ricchi che per
assicurare il benessere dei figli preferiti, ne esponevano altri.
I maschi avevano i tria nomina. Praenomen,
nomen, cognomen. Il praenomen era il primo nome che si attribuiva al figlio;
l’abituale nome con cui veniva chiamato in casa. Negli scritti il prenome era
ridotto all’iniziale. Il nomen era quello legato alla gens; la famiglia
allargata. Il cognomen era un soprannome conferito in seguito, il più delle
volte ricordato con l’appellativo. Talvolta rifletteva qualche tratto fisico,
come con Cicerone, appellativo di un suo avo che aveva un prominente brufolo
sul naso o con Rufus, il rosso,
Cincinnatus, il riccioluto, Brutus, lo stupido, Calvus, il calvo, Caecus, il
cieco, Nasica, il nasone, Dentatus, il dentone. Poi, in epoca imperiale
s’iniziò a citare unicamente il terzo appellativo, poiché talvolta per capirsi
poteva bastare. Per esempio, Traiano e non Marcus Ulpius Traianus. Esisteva
anche la supernomina, come accadde a Publio Cornelio Scipione che dopo la
vittoria sui Cartaginesi, diventò l’Africano. Le
donne portavano il solo nome della gens, generando confusioni, perché tali nomi
si ripetevano all’infinito; obbligandole ad aggiungere un altro nome per
distinguerle.
Sulla porta di casa
c’era una scultura di Giano. Le sue due facce erano rivolte una dentro e
l’altra fuori della stessa, messa a protezione e controllo della stessa. La
religiosità che il ragazzo praticava, mirava principalmente a disciplinarlo,
spingendolo all’accettazione delle regole e non verso gli ideali degli dei,
poiché i loro comportamenti erano più esecrabili di quelli degli uomini. Così,
imparavano a essere riverenti, verso la famiglia, le istituzioni e lo Stato.
Il
buon Pater Familias teneva spesso il figlio maschio accanto a lui e per una
migliore educazione erano previste le bastonate, in casa come a scuola. Chi
aveva le possibilità, assumeva un precettore che insegnava al bambino a leggere
e a scrivere, sia in Latino che in Greco e a contare. I precettori più ambiti
furono i Greci e gli Etruschi, di cultura superiore. Nell’Urbe le prime scuole statali furono
istituite attorno al 250 a.C., quindi, a cinquecento anni dalla sua fondazione.
Certamente studiavano meno degli studenti attuali,
perché il piano di studio era composto da solo tre materie, Latino escluso.
Quello lo imparavano a casa, dalla nascita. Il poeta tedesco, Heine,
sarcasticamente disse che se i Romani avessero dovuto imparare il Latino a
scuola, non avrebbero trovato il tempo per conquistare il mondo. Non possiamo dargli
torto.
Se il bambino non era di famiglia abbiente, andava in una
scuola pubblica. L’anno scolastico iniziava a fine marzo e prevedeva un giorno
di festa ogni nove. C’erano le vacanze dei Saturnali, tra il 17 e il 23
dicembre, una pausa invernale e una estiva. Le lezioni cominciavano all’alba e
finivano a mezzogiorno, spesso in un ambiente all’aperto. I bambini sedevano su
sgabelli intorno al maestro, il quale era seduto su una sedia, tenendo sulle
ginocchia delle tavolette incerate e un bastoncino appuntito per incidere le
lettere. Molto tempo dopo
fu usata la carta
di lino e la pergamena. Dal
II secolo a.C., dagli otto anni, ai sedici anni erano chiamati puer, mentre le
femmine erano chiamate puera o con il diminutivo di puella.
A dodici anni i maschi passavano al secondo livello
d’istruzione, imparando lingua e letteratura Greca e Latina, storia, geografia,
fisica e astronomia, mentre le femmine si dedicavano ai lavori domestici, come
filare la lana, cucire abiti, cucinare e spazzare. I maschi andavano anche in palestra,
allenandosi sino all’età di 17 anni. Praticavano un combattimento incruento, con
armi in legno senza filo e senza punta, con apposite dotazioni per difendere la
testa, gli stinchi e le braccia, come i gladiatori. Dopo i diciassette anni il
giovane iniziava la vita militare con il vero addestramento negli accampamenti
e nei siti di guerra.
A Roma, i bambini liberi avevano un amuleto al collo, la
bulla che segnalava la loro condizione sociale. A diciassette anni iniziava
anche il terzo livello d’istruzione, dalla durata di due anni. Per chi voleva
specializzarsi si recava ad Atene, Pergamo, Rodi o Alessandria, capisaldi
dell’apprendimento, ad imparare il meglio della cultura. Le scuole furono un
miracolo di cultura e di civiltà, facendo raggiungere un grado di
alfabetizzazione molto alto per l’epoca. Con la caduta dell’impero Romano, la
Chiesa ordinò la chiusura di tutte le scuole pubbliche, lasciando solo quelle
riservate ai preti. La lingua Latina, la lingua universale, la più ricca,
sintetica, efficace, melodiosa e bella del mondo, fini miseramente tra le spire
dei dialetti, imbarbarendosi.
Nella
Roma arcaica la moglie entrava a far parte della famiglia del marito anche in senso
economico e religioso, ereditando i suoi beni nel caso di adulterio o se beveva
del vino a sua insaputa. Dal controllo del reato nacque il bacio che tutti
praticarono per altri scopi, giacché per accertarsi se la moglie avesse bevuto,
il marito annusava la bocca aperta della possibile fedifraga. Queste leggi
matrimoniali sopravvissero per secoli,
ma mezzo millennio dopo la nascita di Roma, si cominciarono a diversificare.
Per esempio, Spurio Carvilio divorziò per accertata sterilità della moglie.
Le lamentele più ricorrenti dei Romani erano sul traffico
cittadino. I carri scorrazzavano numerosi nelle strade dell’Urbe, congestionando
le strade e spingendo Giulio Cesare, nel 45 a.C., a emanare una legge che
permetteva solo la circolazione dei veicoli per il trasporto di merci e cibo. Il
traffico privato fu vietato dall’alba al tramonto, anche se la legge non fu
seguita nella sua interezza. Il rumore era un’altra delle caratteristiche
sgradevoli della città. Marziale disse: “A Roma non esiste un posto dove un
poveretto possa meditare o riposare. Al mattino non ti lasciano vivere i
maestri di scuola e la notte i fornai. L’orefice picchia con il mazzuolo l’oro
della Spagna. Dall’altra parte non smettono i fanatici del culto di Bellona di
chiacchierare e vociare.”
Altro elemento di lamentela era la sporcizia. I liquami
venivano buttati in strada dalle finestre, provocando un lezzo insopportabile e
i tintori dei tessuti usavano la orina per il loro lavoro, infestando l’aria. La
crisi degli alloggi e i suoi alti prezzi era un’altra lamentela usuale tra i
Romani. Anche i vagabondi causavano lamentele, per le loro richieste
inopportune. Pur essendoci dei vigili che dirimevano le questioni, di notte,
camminare per l’Urbe era pericoloso.
Tutte le leggi approvate erano discusse dalle assemblee.
La prima era l’assemblea della plebe, organizzata su venti tribù, entità
territoriale, quartieri della città che eleggevano il tribuno della plebe che
aveva la possibilità di bloccare le leggi di altre assemblee, se credeva che
potesse ledere gli interessi della plebe. La seconda era quella dei comizi
tributi, organizzati in trentacinque tribù, sempre su entità territoriali, i
quali eleggevano le magistrature minori, come i questori ed edili. Gli edili
controllavano i mercati, le strade e organizzatori di giochi. I questori
organizzavano le finanze di una zona, riscuotendo le tasse e gestire le finanze
di una entità territoriale. Un’altra assemblea era quella dei comizi
centuriati, organizzati in cento novantatré centurie, le quali non erano
organizzate su entità territoriale, ma sul censo, sulla ricchezza.
Le prime novantatré erano degli uomini più ricchi di
Roma, eleggendo le magistrature principali. Eleggevano i pretori, l’attuale
magistrato, i quali intervenivano quando c’erano delle diatribe inestricabili,
interpretando la legge. La carica dei censori controllavano che i futuri
senatori che avessero i requisiti, si occupassero del censimento della
popolazione e il decoro delle città. Infine i comizi centuriati eleggevano i
consoli, uno degli optimates e uno dei populares, la più alta carica dello
Stato. I due si controllavano a vicenda e comandavano a giorni alterni.
L’assemblea dei comizi curiati, la prima a essere formata, nel tempo perse
d’importanza ed era presente solo simbolicamente.
Il senato, sempre presente nella storia di Roma, ai tempi
di Romolo chiamato consiglio del re, era formato da trecento senatori, tutti ex
magistrati che dopo alcuni mandati potevano confluire nel senato, senza poter
legiferare, ma solo con funzione di controllo, dando voce agli aristocratici,
approvando situazioni politiche e pubbliche, come finanziare le legioni,
dichiarare guerra. Il loro potere dialettico era la parte più spettacolare
nella vita pubblica, militare e politica di Roma.
Oggi come ieri, il problema più importante per gli uomini
era la zazzera. Quando diventava bianca se la tingevano e quando compariva la
calvizie, usavano il riporto. Famoso quello di Giulio Cesare. Si ricorreva
anche al nerofumo per colorarli, oppure alle parrucche. Affari d’oro facevano i
venditori di lozioni miracolose per la crescita dei capelli. Ovviamente
inefficaci.
Fin dal III secolo a.C., era di moda tra i
Romani sbarbarsi, ma dopo Adriano la maggior parte degli imperatori non lo fecero.
Da amante della cultura Greca, nel
II secolo, Adriano si lasciava crescere la barba facendola ridiventare di moda a Roma, ma anche perché aveva una
cicatrice da nascondere. Dopo i quarant’anni,
molti se la facevano crescere come segno di saggezza e di comando, da cui il
detto Latino: “Barba virile decus et sine barba pecus.” La barba è un decoro
dell’uomo e chi è senza barba è una pecora.
Presso altri antichi popoli la barba era considerata un
simbolo di potere. I sumeri si radevano la barba e si tagliavano i capelli, ma
nel I millennio a.C., portavano la barba squadrata e arricciata. In Egitto
radersi era considerata una regola igienica e un dovere religioso, mentre i
nobili si radevano il corpo e mettevano parrucche colorate e inanellate.
Nell’antica
Grecia la barba era ritenuta segno di forza e di virilità. Gli ateniesi
Temistocle, Pericle, Milziade e gli spartani Pausania e Leonida portavano una
barba corta e curata. A Sparta, i codardi erano condannati a portarla su
un solo lato del viso, in modo che fosse facile distinguerli a distanza.
Alessandro Magno, nel IV secolo a.C., impose ai soldati di radersi per distinguersi
dai nemici ed evitare che potessero essere afferrati per la barba. I Romani non
si radevano, ma nel 299 a.C., Publio Ticino Menea introdusse a Roma i
barbitonsori, reclutatati in Sicilia, al tempo greca e abituati a radersi.
Scipione l’Africano fu uno dei primi a radersi, poi largamente imitato.
Fare la barba
non era un compito facile, poiché i rasoi oltre che essere usati a secco, erano
poco affilati, provocando tagli e infezioni. Nonostante ciò, anche i soldati
negli accampamenti si radevano per mantenere la disciplina e il senso della romanità
e anche gli schiavi erano obbligati a farlo. Giulio Cesare si radeva ogni
mattina e si depilava in tutto il corpo, chiedendo ai suoi soldati di imitarlo,
tanto da indurlo a dire: “I miei soldati si profumano, ma combattono bene.”
Tiberio, Caligola e Claudio si radevano, ma non Nerone, perché odiava che gli
accostassero una lama al collo. Lo stesso, vanitoso come nessuno, pose la sua
prima barba da ragazzo in una pisside d’oro massiccio, offrendola a Giove
Capitolino. I successori Vespasiano, Tito, Domiziano, Nerva e Traiano si radevano,
cosi come Antonino Pio, Lucio Vero, Marco Aurelio, Settimio Severo e Caracalla.
I rasoi in ferro
erano affilati come qualsiasi altro coltello, su delle mole di pietra o su
strisce di cuoio. I Romani s’affidavano al tonsor, il barbiere, privato per i
più ricchi e pubblico per la popolazione, il quale in una bottega o in strada
tosava i passanti che lo richiedevano. Giovenale accusa i tonsores di disturbo della
quiete pubblica, a causa delle urla atroci che riuscivano a cavare dai loro clienti,
a ogni ora del giorno. Lo storico Carcopino, illustra il dramma che
rappresentava per i Romani il radersi, sacrificio affrontato per distinguersi
dai barbari. I tonsores riuscivano nell’impresa di sfregiare e tagliare pezzi di
naso, orecchio e altro. In mancanza di dentisti e chirurghi, a loro era
affidato anche il compito di cavare denti e di cucire le ferite, con risultati
immaginabili. I curiosi stazionavano nei paraggi, vogliosi di novità e
pettegolezzi o per ricevere informazioni e fare affari. Così, Marziale raccontava
le imprese del suo barbiere. “Le stimmate che io porto sul mento, grandi quante
un grugno, le ostenta un pugile in pensione. Non me le ha fatte mia moglie con
le sue unghie, ma il braccio scellerato d’Antioco, con il suo ferraccio.” Poi,
conobbe Pantagasto che con la sua mano di seta gli risolse il problema. Con la
caduta dell’impero Romano, l’umanità si tuffò nella barbarie e le barbe si
riallungarono. La civiltà Romana che aveva illuminato il mondo si spense,
precipitando nell’evo oscuro, dove lavarsi era peccato, ma importante era pregare.
La donna Romana, per un appuntamento galante gradiva che
gli uomini fossero puliti e si profumassero con olii balsamici. Il corpo
maschile più alla moda per la donna era quello abbronzato e atletico. Gli
uomini ricchi si vestivano con un perizoma in lino, chiamato subligar, poi, una
tunica e un camicione in cotone o di lino. Si addobbavano con lingue di stoffa
colorate, le toghe, simili a lenzuola, molto eleganti e curate nelle pieghe,
lunghe circa sei metri. Per la complessità dell’operazione erano aiutati da uno
schiavo. Sopra la toga, nei mesi freddi, usavano un manto che di notte era
steso sul letto come coperta. La toga era un simbolo di cultura e di status che
solo un cittadino Romano poteva vestire. Era proibito vestirsi con abiti dell’altro sesso, eccetto a carnevale o
durante le feste.
Nei secoli la toga subì innumerevoli variazioni. La toga praetexta,
bordata di porpora era indossata da senatori, magistrati e alte cariche statali
e religiose, compreso l’imperatore. La toga praetexta era indossata anche dai
ragazzi sino ai sedici anni. La toga praetexta era di origine Etrusca e
introdotta a Roma da Tullo Ostilio. La bianca toga virilis segnava l’ingresso
nell’età adulta, indossata in una cerimonia.
La toga candida era ancora più bianca della precedente e era indossata da
chi si proponeva per la magistratura. La toga purpurea, interamente di porpora,
era riservata agli imperatori e ai condottieri nel momento del trionfo. La toga
trabea era multicolore e veniva indossata dagli áuguri, i sacerdoti che
rivelavano il volere degli dei, attraverso il volo degli uccelli. La toga sinus
era una stoffa che veniva ripiegata più volte attorno al petto. Comparve
durante il principato di Augusto, indossato dagli imperatori.
Sin dall’inizio della civiltà Romana, l’abbigliamento ha rappresentato la
cittadinanza, il rango e cariche di ogni tipo. Il codice del vestiario era così
rigoroso che le violazioni potevano essere considerate un’offesa per i costumi
della patria. Non si trattava di sola indecenza, ma di un oltraggio alle
istituzioni. Gli abiti erano di lana o di lino, anche se i più abbienti, in età
imperiale usavano anche la seta e il cotone. Il pallium era un mantello di lana
con inserti colorati che si portava sopra la toga. Poi, preferirono indossarlo
sopra la tunica, evitando la complessità della toga. Il progressivo abbandono
della toga da parte dei Romani fu stigmatizzato da Augusto, nel tentativo di
ripristinare gli antichi costumi.
Nel 382, l’imperatore Teodosio emanò una lex vestiaria che prescriveva
abiti per ogni categoria. I senatori dovevano indossare la toga, così come i
clientes che erano i protetti dei patrizi. Gli officiales, funzionari di Stato,
dovevano indossare il pallio. Gli imperatori Onorio e Arcadio emanarono leggi
ancor più restrittive, vietando di indossare i pantaloni, bracae, vestiario dei
barbari. In seguito, con il dilagare dei barbari, queste leggi furono eliminate.
Oramai mancava poco al crollo dell’impero d’occidente.
Le prime calzature dei Romani furono le Solae, sandali
unisex, fissati alla caviglia con una cinghia e usati in casa con il Soccus, calzatura
leggera e bassa d’origine Greca, simile all’odierna pantofola. Le scarpe
erano chiuse come stivaletti o aperti come i sandali, fatte con strisce di
cuoio e chiodate per salvaguardare la suola. Ogni reggimento militare possedeva
una diversa disposizione dei chiodi, per lasciare impronte riconoscibili. Un
disertore non aveva scampo. Poi, i sandali divennero raffinati e sfarzosi,
ornati di fili e fibbie di bronzo, di rame, d’argento e d’oro, di piume
colorate, di ciondoli, di conchiglie. Giulio Cesare portava dei sandali con la
tomaia in oro. Eliogabalo usava scarpe nuove ogni giorno, proibendo alle
matrone di indossare sandali ornati di ricami o di pietre preziose, perché
voleva l’esclusiva.
I Romani non usavano le calze. Le scarpe erano lucidate
con cera d’api e colorate con zafferano per il giallo, sali ferrosi o tannini
per il nero, guado per l’azzurro e porpora per il rosso. Il Coturno, usato
dagli attori tragici, era una calzatura con allacciatura alla caviglia o al
polpaccio e suola molto spessa che elevava la persona. I Calcei erano fatti con suole
nere senza tacco, indossati dai senatori, mentre quelli rossi erano prerogativa
delle alte cariche. Chi camminava molto, come i centurioni e i contadini,
portava le Caligae, calzatura chiusa con suola ferrata.
Per
i Romani la gestualità era essenziale, poiché coloriva ed enfatizzava l’oratoria.
Poi, dopo la caduta dell’impero, la gestualità fu considerata una volgarità. Giulio
Cesare aveva una gestualità armoniosa e contenuta, dando più risalto e carisma
ai propri discorsi.
Nella cultura antica mediterranea, il saluto non
prevedeva un contatto. I Greci, Etruschi e Romani non si toccavano. In Egitto
s’inchinavano. La prima regola del saluto era mostrare la mano disarmata,
chiarendo che si avevano buone intenzioni. Il saluto Romano è ben raffigurato
nelle statue di alcuni imperatori come Giulio Cesare, Ottaviano Augusto o Marco
Aurelio, dove il braccio è proteso in avanti e il palmo è ben mostrato, diverso
dal saluto fascista o nazista. Questo equivoco nacque nel 1914, quando Gabriele
D’Annunzio fu chiamato come consulente nella realizzazione del film muto
Cabiria, ambientato nel III secolo a.C.. D’Annunzio immagina il saluto Romano
utilizzato nel film, come quello che in seguito sarà usato dai regimi fascista
e nazista.
Il pugno chiuso e il medio aperto, nacque in Grecia, poi
passato a Roma, chiamato, digitus impudicus, dito osceno. Il gesto era una
minaccia di sodomizzazione. Il pollice messo tra l’indice e il medio era un
insulto sessuale, ma aveva soprattutto un senso scaramantico e di buona
fortuna. Gratatio pallorum, omnia mala fugat. Grattarsi i testicoli era un
gesto scaramantico di buona fortuna che allontanava tutti i mali. Nella
gestualità Romana, la condanna col pollice puntato verso il basso non esiste.
La condanna era rappresentata dalla mano aperta, con le quattro dita unite
verso il basso e il pollice contro il condannato. Le quattro dita verso il
basso indicavano la sua discesa negli inferi, mentre il pollice puntato contro
indicava la spada che doveva affondare nel corpo.
2025 by Enzo Casamassima. All rights reserved. No part of this document may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording or otherwise, without prior written permission.
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