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Padre
Pio
Il vero nome
di Padre Pio era Francesco Forgione, nato il 25 maggio del 1887, a Pietrelcina,
in pieno Sannio, nella provincia di Benevento. Ai tempi di Francesco la vita a Pietrelcina
era dura. O ci si rompeva la schiena nei petrosi campi per sradicare un tozzo
di pane, o ci si imboscava in un convento per sopravvivere meno faticosamente. Fu
così che Francesco decise di entrare in un convento di frati cappuccini.
Nell’estate
del 1918, poche settimane prima che finisse la Grande Guerra, nel convento di
San Giovanni Rotondo, dov’era arrivato nel 1916, Padre Pio ricevette le
stimmate. Cambiando il corso della sua vita, nel 1919 lo dichiarò agli
inquisitori del Sant’Uffizio, attirando devozione, ma anche disprezzo. Quindi,
nel giugno 1921, per verificare la veridicità del suo caso, ci furono otto
giorni di indagini e interrogatori per il frate e i confratelli.
“Udii una
voce che diceva, ti associo alla mia passione e ho visto questi segni, dai
quali gocciolava sangue.”
Gli
inquisitori gli chiesero delle febbri a temperature letali; dei dolori e delle
lotte notturne col diavolo; del profumo di fiori; delle bilocazioni.
“Io non so
come sia, né di che natura è la cosa, né molto meno ci do peso, ma, mi è
accaduto di avere presente questa o quell’altra persona, questo luogo o
quell’altro; non so se la mente si sia trasportata lì o era una
rappresentazione del luogo o della persona che si era presentata a me, non so
se col corpo o senza il corpo io sia stato presente…”
Quando Giovanni Paolo II, a furor di popolo, il 2
maggio 1999 lo proclamò beato,
ricordò le prove che dovette superare per arrivare a tale decisione, poiché
esistevano anche atti accusatori dei detrattori, i quali furono chiamati, incomprensioni.
Nella sua vita, per cinque volte Padre
Pio è stato sottoposto a delle inchieste da parte del Sant’Uffizio, subendo interrogatori, intercettazioni, perquisizioni, restrizioni e divieti di
celebrare messa in pubblico.
Pio XI e Giovanni XXIII,
papi dell’epoca sua più illustre, per usare un eufemismo, lo consideravano con
sospetto. Il domenicano francese Paul Pierre Philippe, poi vescovo e cardinale,
inviato da Papa Roncalli, alias Giovanni XXIII, a interrogare il vecchio frate,
allora settantaquattrenne, lo apostrofò: “Un disgraziato che approfitta della
sua reputazione di santo, per ingannare le sue vittime.” Nella relazione al
Sant’Uffizio scrisse che si trattava della più colossale truffa nella storia
della Chiesa. E se in seno alla Chiesa lo definivano così, solo i
creduloni della fede e gli ignoranti come lui che aveva ordito il piano
potevano credergli.
Per le indagini, il
domenicano francese aveva fatto forare le pareti della stanza dove Padre Pio
riceveva la gente, per metterci dei microfoni, i quali, nelle udienze di fedeli
riportarono il suono ripetuto di baci. Accusato di atti carnali, il frate si difese
dicendo che non aveva mai baciato una donna in vita sua e spergiurava davanti a
Dio che non aveva mai baciato neanche la mamma.
Papa
Giovanni XXIII temeva un immenso inganno, un disastro di anime, come annotava nei suoi diari del 1960, ma poi, si fece convincere dal suo
vecchio amico Andrea Cesarano, arcivescovo di Manfredonia, il quale asseriva che
quei rumori provenivano dai fedeli che gli baciavano con devozione le mani
stigmatizzate.
Karol
Wojtyla era un giovane prete che
studiava a Roma, quando nel 1947 si recò a San Giovanni Rotondo, facendosi
confessare da Padre Pio. Da ciò, nacque la leggenda più volte in seguito
smentita dallo stesso Giovanni Paolo II che il frate gli avesse predetto
l’elezione a Papa e l’attentato di Ali Agca. “Ma, non è vero niente.” Per Wojtyla
lo strano era che i prodigi, più dei fedeli, avevano eccitato i detrattori che lo
deridevano e lo sfruttavano per denaro o battaglie ideologiche, ma chi si recava nel suo convento per chiedergli un consiglio
o confessarsi, lo identificava con il Cristo sofferente e risorto, restandone
incantati.
Un’autorità
come padre Agostino Gemelli, frate francescano e medico, fondatore nel 1921
dell’università Cattolica a Roma che l’anno prima lo aveva incontrato, scrisse
al Sant’Uffizio che si trattava di uno psicopatico ignorante che induce all’automutilazione
e si procura artificialmente le stigmate, allo scopo di sfruttare la credulità
della gente.
Alla
richiesta di spiegazioni sull’esistenza di una boccetta di acido fenico nel suo armadietto che si era procurato in
farmacia, facendo pensare all’auto stigmatizzazione, il frate asseriva
che gli serviva per disinfettare le siringhe, giacché quelli erano i mesi in
cui l’influenza spagnola faceva sfracelli. In quel frangente anche gli scettici
avevano dubbi, perché né l’acido fenico, né la polvere di veratrina avrebbero potuto
procurare quel tipo di lesioni per cinquant’anni. Ma, sul santo più amato del
novecento, venerato da milioni di persone in tutto il mondo, continuano a gravare
forti sospetti.
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