Per una corretta visone del blog si consiglia di usare il computer. Con gli altri dispositivi la visione è imprecisa.
Para una correcta visión del blog se recomienda usar la computadora. Con otros dispositivos la visión es imprecisa.
Tullo Ostilio Il Guerriero
Tullo Ostilio, Tullus Hostilius, regnò dal 673 a.C., al 641 a.C.. La sua
data di nascita è sconosciuta. Morì nel 641 a.C.. Alla morte di Numa
Pompilo, come alla morte di Romolo, ci fu un periodo d’interregno, sino a
quando Tullo Ostilio fu nominato terzo re di Roma, poiché il popolo
conosceva i trascorsi di suo nonno, Osto Ostilio, il quale aveva posto le
prime pietre della città con Romolo e combattuto al suo fianco contro i
sabini, dopo il ratto. Tullo Ostilio, pur essendo stato un buon re per il
suo popolo, era un tipaccio iperattivo, più guerriero e iracondo di Romolo,
appartenente alla Gens Hostilia. Un sanguinario che ideava pretesti per
ingurgitare le tranquille cittadine limitrofe. Al contrario di Numa
Pompilio, Tullo Ostilio accettò subito il trono con orgoglio e senza
chiedere il parere degli dei. Egli confidava nelle sue capacità e in quelle
dei suoi soldati, giacché gli interessava solo combattere, per far uscire il
popolo romano dalla catarsi in cui il precedente sovrano l’aveva gettato e
dirigerlo verso la gloria.
Quando Tullo
Ostilio fu eletto re, era già avanti con l’età ed essendo
guerriero nel midollo, aveva sopportato malamente gli anni d’ozio del regno
di Numa. Quindi, i suoi primi provvedimenti furono indirizzati verso i
giovani, i quali avrebbero dovuto seguire un duro addestramento militare.
Poi, concesse alle persone meno abbienti, le terre appartenute a Romolo,
diventando un re amato dal popolo. Il regno di Numa Pompilio aveva
rammollito i romani, mentre i vicini Albani disturbavano il quieto vivere
del pacifico sovrano e dei suoi abitanti, con continue incursioni nel
territorio romano. Ora, Ostilio aveva la possibilità di ricambiare il mal
ricevuto e dimostrare ai vicini chi era il più forte. Le guerre inconcluse a
scopo commerciale e territoriale iniziate da Romolo contro Alba Longa e
Veio, entrambe a 6 miglia da Roma e contro Fidene, a 18 miglia, furono le
prime conquiste dell’aggressivo Ostilio, allargando i confini di Roma.
Queste città erano troppo vicine e concorrenziali, per poterci convivere
tranquillamente, oltre al fatto che i rapporti con Alba Longa si erano
deteriorati per continue controversie.
Era la primavera
del 667 a.C.. Gli Albani, dopo anni di scorribande nel
territorio romano, costruirono una grande trincea a sette chilometri da
Roma, aspettando gli eventi. La fossa, esistita per molti secoli, fu
chiamata Fossa Cluilia, dal nome del loro dittatore. Costui, qualche tempo
dopo tirò le cuoia, sostituito da Mazio Fufezio. Tullo Ostilio commentò la
notizia della morte del tiranno, dicendo che finalmente la giustizia divina
aveva fatto il suo corso, giacché aveva eliminato colui il quale con le sue
azioni aveva scatenato la guerra. Poi, con il suo esercito, evitando la
trincea scavata dagli Albani, si portò a sua volta sotto le mura di Alba
Longa, spingendo Mezio a sloggiare dalla trincea, per portarsi in difesa
della sua città sguarnita. Gli eserciti si sistemarono nella piana adiacente
alla città, per uno scontro frontale. Alba Longa paventava che la guerra
contro Roma sarebbe stata lunga e sanguinosa. Pari nell’arte della guerra e
nel numero di soldati, i due eserciti si sarebbero annullati a vicenda,
indebolendosi, diventando facile preda dei popoli limitrofi, Etruschi in
primis. Infatti, dopo varie scaramucce, senza definire nulla, il re Albano,
Mezio Fucezio, chiese a Tullo Ostilio un incontro. Da ricordare che i
troiani erano i loro comuni avi. Enea aveva fondato Lavinio e Alba Longa era
stata fondata dagli abitanti di Lavinio. I romani discendevano dagli Albani
e Alba Longa era la città natale di Romolo.
“Questa guerra è
stata causata dalle razzie e dal bottino non restituito,
nonostante le richieste. Ma, in verità è la sete di potere che ha spinto i
due fraterni eserciti a questo punto. Non è mia intenzione giudicare chi ha
torto e chi ha ragione. Non sono un giudice, sono solo un generale scelto
dagli albani per condurre le azioni belliche. Pero vorrei farti notare, o
Tullo che gli Etruschi stanno aspettando l’esito di questa battaglia, per
assoggettarci quando saremo stremati. Quindi, senza inutili spargimenti di
sangue, troviamo un modo incruento per dirimere la questione. Ognuno di noi
scelga un soldato e lasciamo che si sfidino in duello. Il vincitore
decreterà la vittoria del suo popolo.”
Alle parole di
Mezio Fucezio, Tullo Ostilio annuì, nonostante fosse già
pronto, famelico e assetato di sangue, per dirimere la faccenda alla sua
maniera. Avendo rimesso in sesto un esercito rammollito, era convinto di
conquistare Alba Longa. Poi, si convinse e furono scelti tre soldati romani,
gli Orazi, i quali avrebbero dovuto combattere contro tre soldati di
Albalonga, i Curiazi, per decidere le sorti della guerra. All’epoca,
capitava spesso di risolvere i problemi in questo modo e nella fattispecie i
dissidi non erano stati tanto aspri da desiderare la distruzione del popolo
avverso. I sovrani dei due popoli, giurarono solennemente che il popolo
vincitore della sfida, avrebbe dominato quello sconfitto, senza
condizioni.
Albano Sicinio
aveva due gemelle che avevano sposato nello stesso giorno,
una il romano Orazio e l’altra l’albano Curiazio. Entrambe, nello stesso
periodo avevano avuto un parto trigemino, evento eccezionale per l’epoca e
per questo erano da tutti conosciuti. I sei cugini, scelti per dirimere la
guerra, di pari forze ed età, accettarono a malincuore il gravoso compito
per amor patrio e per l’ordine ricevuto dai rispettivi sovrani.
Nel giorno stabilito, Orazi e Curiazi si recarono in una vasta pianura,
scelta come campo di battaglia, circondato da un’immensa folla che lo
delimitava, costituita dai cittadini delle due fazioni. Terminato il
giuramento, i sei gemelli furono armati per il combattimento che avrebbe
determinato la vittoria di un popolo. Il suono stridulo delle spade
cominciarono a sbattere contro le ferraglie nemiche, gelando gli animi dei
presenti. L’esito era incerto. Poi, i primi schizzi di sangue determinarono
la morte di due gemelli Orazi, i quali infilzati come polli, stramazzarono
al suolo. Dopo poco, si era già sul due a zero per i Curiazi. Roma era
sull’orlo del baratro. Urli di gioia salirono alti dalla popolazione albana,
i quali pregustavano la vittoria. Dalla parte romana, palesemente
serpeggiava sbigottimento e incredulità, per l’esito avverso del
combattimento. Le loro speranze erano ridotte al lumicino. Publio Orazio, il
terzo gemello rimasto in piedi, per paura di morire, cominciò a darsela a
gambe come un gallinaccio, zigzagando nella pianura, inseguito dai tre
gemelli Albani, i quali gettavano sui romani anche l’onta della vergogna. La
fuga del ragazzo era febbrile e sconclusionata. Fuggiva dal nemico e dalla
paura d’essere ammazzato. Nessuno avrebbe scommesso sulla sua salvezza e
neppure egli stesso, lanciato a tutta birra verso una impossibile salvezza.
Lo scontro era appena iniziato e già si delineavano i vincitori, ma, in
realtà, la partita era ancora tutta da giocare, con possibili capovolgimenti
di fronte. Il plotoncino dei guerrieri inseguitori si distanziò e quando
l’Orazio fu raggiunto dal primo cugino, istintivamente, con uno scatto
felino si voltò e penetrò la sua spada nel corpo del nemico, infilzandolo
come una salsiccia. Poi, quando l’Orazio fu raggiunto anche dal secondo
cugino, ripetette la mossa precedente, facendo stramazzare anche il secondo
Curazio. Ora la disputa era in parità. Due a due. La strategia vincente fu
ripetuta anche sull’ultimo Curiazio, il quale testardamente ripeté l’errore
dei due precedenti gemelli, restando anch’esso trafitto. La disputa era
finita ad appannaggio dei romani.
Orazio Publio
palpitava dalla paura. Il suo cuore era sconvolto per la
gioia d’averla scampata grossa concedendo la vittoria al suo popolo e la
tristezza per aver soppresso i suoi cugini. Gli storici sono concordi
nell’affermare che quella del ragazzo fu pura strategia. Quello che stupisce
è che almeno il terzo guerriero Albano avrebbe dovuto capire l’antifona e
cambiare strategia. Ma non lo fece. L’ovazione riservata dai romani al suo
eroe fu immensa. Poi, ciascun popolo seppellì i propri soldati periti, nel
punto esatto dove caddero. E le tombe esistono ancora. Al V miglio della via
Appia, una curva evita i tumuli celebrativi, eretti in memoria della
battaglia tra Orazi e Curiazi. Una struttura cilindrica, dal diametro di 15
metri, con un nucleo interno in tufo e materiale vulcanico con rivestimento
di travertino fu rinvenuto negli scavi. Il corpo, alto oltre 8 metri,
presenta una corona e un mausoleo a piramide alto 20 metri.
I due eserciti, con differenti stati d’animo, presero la via delle
rispettive città, non prima che Tullo raccomandasse Mezio, di tenere
l’esercito pronto, nel caso di un attacco di Veio. Mentre l’esercito
s’avvicinava alle mura di Roma, con in testa l’eroe, incrociarono la sorella
di Publio, promessa sposa di uno dei cugini uccisi. Quando la ragazza
riconobbe il mantello che lei stessa aveva donato al suo promesso sposo
sulle spalle del fratello, sciogliendosi i capelli, scoppiò in un pianto
dirotto e con grida inopportune, in quel frangente di gloria, cominciò a
declamare: “Vergognati, non sei un eroe, come la folla vuole farti apparire.
Sei un assassino.” Irritato dal pianto della sorella e confuso per tutto
quello che stava accadendo, in uno scatto d’ira, estrasse la spada e la
penetrò, dicendo: “Vattene dal tuo fidanzato, con il tuo amore giovanile, tu
che non pensi ai fratelli morti, né a quello vivo e alla patria. Possa
morire in questo modo ogni romana che piangerà i nemici.”
La sorella trafitta, cadde a terra priva di vita. E poiché, gli eventi
della vita cambiano in un baleno, colui che era acclamato, portato in
trionfo da una folla festante, stava per essere condotto davanti al
patibolo. Dopo aver vinto e aver salvato la patria, l’ingenuo ragazzo si
sentiva autorizzato a ogni gesto, persino a uccidere impunemente sua
sorella, senza immaginare che per quel delitto atroce, avrebbe dovuto
affrontare un giudizio. Portato al cospetto del re, il ragazzo fu dirottato
di fronte a due cittadini, nominati per giudicarlo di lesa maestà o in
subordine, giudicato dal popolo. Tale delitto prevedeva che il condannato,
appeso a un albero secco, a capo coperto, fosse fustigato sino alla morte. E
il giudizio per il reato ascritto fu di colpevolezza.
Un momento prima che il proscenio dipingesse il crudele atto finale, il
padre del carnefice e della stessa vittima, con un gesto disperato irruppe
sulla scena, cercando di calmare il popolo e difendere suo figlio dalla
morte, chiedendo clemenza per un ragazzo che pur macchiatosi di un delitto
infame, aveva salvato il popolo romano. L’incaricato stava per legarlo,
quando Orazio, padre di Publio, impugnata la sentenza, chiese il rinvio per
demandare il giudizio al popolo. La mattina seguente, in una piazza colma
all’inverosimile ci fu il dibattito. La testimonianza del padre del ragazzo,
sosteneva la giustezza dell’azione del figlio, replicando che se non lo
avesse fatto avrebbe avuto il suo rimprovero. Poi, implorò il popolo di
lasciargli l’ultimo della sua numerosa prole. Abbracciandolo continuò: “Ce
la farete, o Quiriti, a vedere frustato a morte, questo soldato che solo
ieri avete trionfalmente osannato? Vai littore, lega le mani all’eroe che ha
consegnato Alba Longa ai romani. Vai, incappuccia la testa al salvatore del
popolo e appendilo a un albero rinsecchito e frustalo. In quale posto
eseguireste la sentenza, senza capire l’assurdità del verdetto?”
L’accorato discorso di Orazio e la tempra del giovane eroe, rimasto
impassibile alla sentenza e alla straziante difesa del padre, fece tale
presa sugli astanti, da riuscire a placare la loro ira e salvare la pelle
all’ultimo dei suoi figli, poiché il popolo propese per l’assoluzione. Alla
sorella fu elevato un sepolcro in pietre quadrate, nel sito dove fu
trucidata.
Lo scontro tra
Orazi e Curiazi sancì la sottomissione di Alba Longa al
potere di Roma, costringendo il re Mezio Fufezio, a sostenere tutte le
guerre intraprese da Roma. Gli Albani se la presero con Mezio Fufezio, per
aver messo nelle mani di tre ragazzi le sorti di un’intera città. Poi, per
recuperare la fiducia dei concittadini, dovette diventare sleale nei
confronti dei romani. D’altronde, conoscendo i suoi concittadini, più
propensi alle lamentele che a combattere valorosamente, tentò d’indurre i
popoli vicini a scatenare una guerra contro Roma, recitando la parte
dell’alleato e al momento opportuno schierarsi al fianco dell’opposta
fazione.
Quindi, Tullo
Ostilio chiese al re albano Mezio Fufezio, di rispettare i
patti e assoggettarsi a Roma, ma il sovrano, facendo spallucce, venne meno
ai patti. Mezio s’accordò segretamente con Fidene e Veio, affinché insieme
potessero sconfiggere i romani. Gli eserciti di Fidene e Veio,
attraversarono il fiume Aniene e s’accamparono alla confluenza con il
Tevere. Romolo aveva già affrontato e vinto sia Fidene che Veio, ma non le
aveva assoggettate. Tullo Ostilio comincia a fronteggiare l’esercito di
Veio, ordinando agli albani di fronteggiare le truppe di Fidene. Senza
manifestare le sue intenzioni, Mezio sposta le sue milizie sulla dorsale
della collina, per scendere in campo il più tardi possibile e schierarsi con
la fazione che dimostrasse più possibilità di vittoria. Tullo avverte la
minaccia e gridando ad alta voce, per essere ascoltato dai nemici, ordina
agli albani di recarsi sulla collina e accerchiare l’esercito di Fidene, i
quali per paura d’essere veramente accerchiati, scapparono e i romani dopo
averli inseguiti, li accopparono.
Poi, toccò
all’esercito di Veio fare la stessa sorte. Il massacro fu
totale. “Non alia ante romana pugna atrocior fuit.” Mai nessun’altra
battaglia precedente era stata tanto atroce. Gli Albani, dopo aver deciso da
che parte stare, completando l’accerchiamento, con poche stoccate finirono
le ultime frange nemiche, simulando la loro partecipazione. Poi, l’esercito
albano scese dalla collina e Mezio si recò al cospetto di Tullo Ostilio, per
congratularsi dell’esito della battaglia, il quale indisse un sacrificio
rituale per il giorno seguente. All’alba l’esercito Albano fu circondato
dalle truppe romane. Tullo Ostilio, dopo aver ringraziato tutti per il loro
coraggio, rivelò che il re albano aveva avuto l’intenzione di tradire
Roma.
“Romani, mai in
altre guerre c’è stato fondato motivo di ringraziare prima
gli dei immortali e poi il vostro valore. Infatti, non avete lottato e vinto
solo contro i Fidenati e i Veienti, avete anche dovuto affrontare l’infido
tradimento degli alleati, molto più pericoloso che combattere contro i
nemici con le armi in pugno. Gli albani si sono spostati verso i monti, non
su mio ordine. Quello che avete sentito uscire dalla mia bocca, era solo un
espediente per non farvi capire che eravate stati abbandonati e non crearvi
pericolose angosce e allo stesso tempo impaurire i nemici, inducendoli a
credere di essere circondati e in trappola. Ma, i soldati albani non sono
responsabili della carognata. Loro hanno seguito il loro capo, come avreste
fatto voi, se avessi ordinato una qualsiasi manovra. Mezio ha comandato lo
spostamento. Lo stesso Mezio ha architettato questa guerra e ha rotto il
trattato tra i romani e gli albani. Potrei uccidervi tutti ma non lo farò. È
mia intenzione trasferire tutti gli abitanti di Alba Longa a Roma e
concedere loro la cittadinanza. Nominare senatori i più nobili e formare una
sola città e un solo Stato. Mentre per te, Mezio Fufezio che sei stato il
vero traditore, ho in serbo qualcosa di speciale. Per fare in modo che
nessun altro possa ripetere simili tradimenti, ti darò una lezione che
rimarrà per sempre impressa nella mente degli uomini. Se tu potessi imparare
la lealtà e il rispetto dei patti, ti lascerei in vita. Ma, siccome sei
incorreggibile, insegna agli uomini, con il tuo supplizio, a tenere per
sacri i vincoli del giuramento. Giacché la tua anima sul campo di battaglia
era divisa tra Roma, Veio e Fidene, dividerò anche il tuo corpo.” Tullo
Ostilio.
Tullo fece
avvicinare due quadrighe e ordinò di stendere a terra Mezio.
Legato a esse, i cavalli furono incitati in direzioni opposte, dilaniando il
suo corpo. L’orribile spettacolo che ne scaturì, lasciò gli spettatori
esterrefatti. Nessuno riuscì a guardare la scena sino in fondo. Tullo inviò
la cavalleria ad Alba Longa, per trasferire la popolazione albana a Roma.
Poi, i legionari distrussero le costruzioni, risparmiando solo i templi. In
un giorno furono annullati quattro secoli di storia e la cittadina scomparve
dalla faccia della terra. Si udiva l’ariete abbattere tutto ciò che puntava,
nello sbigottimento della popolazione che vedeva perdere tutti i loro averi,
tra le urla dei legionari che intimavano di togliersi di mezzo. La polvere
s’alzava per l’infrangersi al suolo delle strutture, elevate con cura e
dovizia nei secoli.
Con l’ammissione
della popolazione albana, Roma raddoppiò d’un colpo la
popolazione. Il Celio fu completamente occupato dagli albani e per
rassicurali, Tullo vi stabilì anche la sua residenza. Alle famiglie nobili
albane furono date delle nomine senatoriali. I Tulli, i Servili, i Quinzi, i
Curiazi, i Cleli, i Gegani, sedettero accanto ai senatori romani. Per il
nuovo senato fu costruita la curia Ostilia. Anche l’esercito albano
rimpinguò quello romano, istituendo nuove legioni e squadroni di cavalleria.
Roma era diventata l’incubo delle popolazioni laziali. Tullo Ostilio visse
per l’espansione di Roma. Nell’accogliere gli abitanti delle città
sconfitte, adeguò i perimetri cittadini, impedendo che il popolo perdesse
tempo nei riti religiosi.
Poiché i romani
vivevano nel luridume, lentamente la peste s’impossessò
dell’Urbe e Tullo, infischiandosene, imperterrito, seguitò a impartire
addestramenti militari, sino a quando, anch’egli colpito, preso dalla
tremarella, diventò un altro uomo. Abbandonando le spoglie del bellicoso e
dell’iracondo, divenne il più devoto di tutti. Passava tutto il giorno a
pregare, dedicando la sua vita al culto degli dei. Ogni parvenza d’ateismo
era miracolosamente sparita, ma non la peste che continuava a tartassarlo,
peggiorando di giorno in giorno la sua situazione. Fiaccato nel fisico e
nella mente, non sapendo più a che santo votarsi, decise di ricorrere alle
scritture di Numa Pompilo.
In una notte
tempestosa, Tullo decise di mettere in azione il rituale
d’evocazione di Giove, per guarirlo dalla malattia. Tullo riuscì a chiamare
l’attenzione di Giove, ma in maniera erronea, il quale stizzito dalla sua
arroganza e insistenza, poiché infastidiva un dio per una faccenda di poco
conto, gli inviò una saetta che lo lasciò secco sul colpo, bruciandolo
insieme alla sua dimora. La conversione fu considerata tardiva. L’evento fu
interpretato come una punizione divina, per il suo smisurato ego e monito
per i romani a scegliere un re con più oculatezza, uno che seguisse i
dettami di pace di Numa Pompilio. Il re guerriero aveva governato per
trentadue anni. Roma doveva riprendere il culto sacro e la religiosità.
L’ateismo di Tullo Ostilio doveva essere eliminato e la speranza generale
era quella di riavere un sovrano religioso.
Anco Marzio l’Iracondo
Anco Marzio, Ancus Marcius, nacque nel 675 a.C. e morì nel 616 a.C.. Fu
il quarto re di Roma e il secondo e ultimo di origine sabina. Anco, appartenente
all’antica gens Marcia, fu favorito all’ascesa al trono dalla parentela con Numa Pompilio, di cui era nipote per parte di una figlia. Regnò per 24 anni,
dal 642 al 616 a.C..
Alla morte di Ostilio, trapassato senza eredi, il potere tornò nelle mani dei patres, i quali nominarono un
reggente.
Poi, si ricordarono di Pompilia, figlia di Numa e di suo marito Marzio,
morto suicida per la delusione di non essere stato eletto re, i quali
avevano procreato un marmocchio chiamato Anco Marzio, nipote di Numa
Pompilio.
Anco Marzio, come suo nonno attento alla religione, governò con saggezza e
lungimiranza, infatti, entrambi furono rappresentati sui denarii. Ma quel
tizio pur ripristinando le faccende religiose, si mostrò anche propenso
alle guerre. Una via di mezzo tra il bellicoso Romolo e il tranquillo Numa
Pompilio. Estese i confini sino al mar Tirreno, creando la prima colonia
romana a Ostia,
sotto forma di porto, dopo aver reso il Tevere navigabile,
per 16 miglia sino a Roma.
Con Ostia nacquero le prime saline e i primi scambi marittimi con le città
vicine. Il sale
fu distribuito gratuitamente alla popolazione e commerciato con i popoli
vicini, ricevendone in cambio legna per la costruzione di case e del ponte
Sublicio, a sud dell’isola Tiberina. Conquistò le cittadine di Ficana e Politorium, giacché si trovavano nella
direzione dove sarebbe nata la via Ostiense. Costruì il foro Boario, un
posto già utilizzato agli scambi commerciali e dove
convergevano le vie del sale dalla Campania, le vie della transumanza da
nord, la via Salaria e le vie commerciali per gli scambi tra le città
Etrusche del nord e quelle Latine del sud. Fece costruire il primo ponte
romano, chiamato Sublicio, collegando Roma con il Gianicolo. Il territorio
era Etrusco, ma con la costruzione del ponte, il colle fu annesso a Roma e
fortificato con delle mura. Ai pontefici ordinò d’incidere su tavolette ed
esporle nel Foro, le disposizioni sacre che Pompilio aveva stabilito. I
riti furono eseguiti dai Feziali, perché la guerra dichiarata ai
nemici non dispiacesse agli dei e potesse essere una guerra giusta.
I Latini Prischi, pur avendo stipulato un accordo durante il regno di
Tullo Ostilio, all’inizio del mandato di
Anco Marzio, razziarono la campagna romana. Quando l’Assemblea deliberò
per un risarcimento danni, con arroganza negarono, pensando che quel re
non si sarebbe vendicato, preso dai riti religiosi. Ma, Anco Marzio decise
di fargliela pagare e dopo quattro anni di combattimenti, conquistò nuovamente Medullia, dopo che la colonia era tornata latina. La stessa sorte toccò agli
abitati di Tellenae e Ficara. Poi, dopo altri due anni di guerre, i romani
saccheggiarono Fidenae. Poi, vinsero nei pressi di Campus salinarum, contro la città di Veio
che pretendeva di riavere i possedimenti persi all’epoca di Romolo. L’anno seguente vinse i Volsci che dopo aver razziato le campagne romane, si erano ritirati nelle
mura di Velitrae.
Anco Marzio riprende l’espansione verso sud, contro i Latini, cosi come
aveva fatto il suo predecessore, trasferendo
tutti gli autoctoni di quelle terre a ingrossare le fila del popolo
romano, sull’Aventino e nella Valle Murcia. Mentre gli albani avevano conservato
i privilegi, poiché considerati parenti dei romani, i latini furono
giudicati degli immigrati e declassificati a plebei.
I primi romani abitarono il Palatino. Con il congiungimento dei sabini si
estesero sino al Campidoglio. Poi, gli Albani si disposero sul colle
Celio. Ai Latini Prischi fu assegnato il colle Aventino, nel quale, in
seguito furono posti anche gli abitanti di Tellene e Ficana. Alla morte di
Tullo Ostilio, Roma era più potente e sicura. Fece costruire un grande
carcere nel centro della città per scoraggiare la crescente criminalità. Anco Marzio morì lasciando due figli, uno dei quali ancora bambino. Nel suo regno di venticinque anni, dette modo all’etrusco Tarquinio di
sistemarsi nella città e diventare il quinto re di Roma.
Testo tratto dal libro sull'Impero Romano:
"Voci dall'Antica Roma"
© 2024 by Enzo Casamassima. All rights reserved. No part of this document may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording or otherwise, without prior written permission.
No hay comentarios:
Publicar un comentario