lunes, 1 de abril de 2024

Tullo Ostilio Il Guerriero e Anco Marzio L'Iracondo

 


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         CVI Exposición Individual de Fotografías:                       "Coppedé" del 6 al 21 de Abril,                               en la Galeria de Arte, MAXART.








Tullo Ostilio Il Guerriero

Tullo Ostilio, Tullus Hostilius, regnò dal 673 a.C., al 641 a.C.. La sua data di nascita è sconosciuta. Morì nel 641 a.C.. Alla morte di Numa Pompilo, come alla morte di Romolo, ci fu un periodo d’interregno, sino a quando Tullo Ostilio fu nominato terzo re di Roma, poiché il popolo conosceva i trascorsi di suo nonno, Osto Ostilio, il quale aveva posto le prime pietre della città con Romolo e combattuto al suo fianco contro i sabini, dopo il ratto. Tullo Ostilio, pur essendo stato un buon re per il suo popolo, era un tipaccio iperattivo, più guerriero e iracondo di Romolo, appartenente alla Gens Hostilia. Un sanguinario che ideava pretesti per ingurgitare le tranquille cittadine limitrofe. Al contrario di Numa Pompilio, Tullo Ostilio accettò subito il trono con orgoglio e senza chiedere il parere degli dei. Egli confidava nelle sue capacità e in quelle dei suoi soldati, giacché gli interessava solo combattere, per far uscire il popolo romano dalla catarsi in cui il precedente sovrano l’aveva gettato e dirigerlo verso la gloria.

Quando Tullo Ostilio fu eletto re, era già avanti con l’età ed essendo guerriero nel midollo, aveva sopportato malamente gli anni d’ozio del regno di Numa. Quindi, i suoi primi provvedimenti furono indirizzati verso i giovani, i quali avrebbero dovuto seguire un duro addestramento militare. Poi, concesse alle persone meno abbienti, le terre appartenute a Romolo, diventando un re amato dal popolo. Il regno di Numa Pompilio aveva rammollito i romani, mentre i vicini Albani disturbavano il quieto vivere del pacifico sovrano e dei suoi abitanti, con continue incursioni nel territorio romano. Ora, Ostilio aveva la possibilità di ricambiare il mal ricevuto e dimostrare ai vicini chi era il più forte. Le guerre inconcluse a scopo commerciale e territoriale iniziate da Romolo contro Alba Longa e Veio, entrambe a 6 miglia da Roma e contro Fidene, a 18 miglia, furono le prime conquiste dell’aggressivo Ostilio, allargando i confini di Roma. Queste città erano troppo vicine e concorrenziali, per poterci convivere tranquillamente, oltre al fatto che i rapporti con Alba Longa si erano deteriorati per continue controversie.

Era la primavera del 667 a.C.. Gli Albani, dopo anni di scorribande nel territorio romano, costruirono una grande trincea a sette chilometri da Roma, aspettando gli eventi. La fossa, esistita per molti secoli, fu chiamata Fossa Cluilia, dal nome del loro dittatore. Costui, qualche tempo dopo tirò le cuoia, sostituito da Mazio Fufezio. Tullo Ostilio commentò la notizia della morte del tiranno, dicendo che finalmente la giustizia divina aveva fatto il suo corso, giacché aveva eliminato colui il quale con le sue azioni aveva scatenato la guerra. Poi, con il suo esercito, evitando la trincea scavata dagli Albani, si portò a sua volta sotto le mura di Alba Longa, spingendo Mezio a sloggiare dalla trincea, per portarsi in difesa della sua città sguarnita. Gli eserciti si sistemarono nella piana adiacente alla città, per uno scontro frontale. Alba Longa paventava che la guerra contro Roma sarebbe stata lunga e sanguinosa. Pari nell’arte della guerra e nel numero di soldati, i due eserciti si sarebbero annullati a vicenda, indebolendosi, diventando facile preda dei popoli limitrofi, Etruschi in primis. Infatti, dopo varie scaramucce, senza definire nulla, il re Albano, Mezio Fucezio, chiese a Tullo Ostilio un incontro. Da ricordare che i troiani erano i loro comuni avi. Enea aveva fondato Lavinio e Alba Longa era stata fondata dagli abitanti di Lavinio. I romani discendevano dagli Albani e Alba Longa era la città natale di Romolo.

“Questa guerra è stata causata dalle razzie e dal bottino non restituito, nonostante le richieste. Ma, in verità è la sete di potere che ha spinto i due fraterni eserciti a questo punto. Non è mia intenzione giudicare chi ha torto e chi ha ragione. Non sono un giudice, sono solo un generale scelto dagli albani per condurre le azioni belliche. Pero vorrei farti notare, o Tullo che gli Etruschi stanno aspettando l’esito di questa battaglia, per assoggettarci quando saremo stremati. Quindi, senza inutili spargimenti di sangue, troviamo un modo incruento per dirimere la questione. Ognuno di noi scelga un soldato e lasciamo che si sfidino in duello. Il vincitore decreterà la vittoria del suo popolo.”

Alle parole di Mezio Fucezio, Tullo Ostilio annuì, nonostante fosse già pronto, famelico e assetato di sangue, per dirimere la faccenda alla sua maniera. Avendo rimesso in sesto un esercito rammollito, era convinto di conquistare Alba Longa. Poi, si convinse e furono scelti tre soldati romani, gli Orazi, i quali avrebbero dovuto combattere contro tre soldati di Albalonga, i Curiazi, per decidere le sorti della guerra. All’epoca, capitava spesso di risolvere i problemi in questo modo e nella fattispecie i dissidi non erano stati tanto aspri da desiderare la distruzione del popolo avverso. I sovrani dei due popoli, giurarono solennemente che il popolo vincitore della sfida, avrebbe dominato quello sconfitto, senza condizioni.

Albano Sicinio aveva due gemelle che avevano sposato nello stesso giorno, una il romano Orazio e l’altra l’albano Curiazio. Entrambe, nello stesso periodo avevano avuto un parto trigemino, evento eccezionale per l’epoca e per questo erano da tutti conosciuti. I sei cugini, scelti per dirimere la guerra, di pari forze ed età, accettarono a malincuore il gravoso compito per amor patrio e per l’ordine ricevuto dai rispettivi sovrani.

Nel giorno stabilito, Orazi e Curiazi si recarono in una vasta pianura, scelta come campo di battaglia, circondato da un’immensa folla che lo delimitava, costituita dai cittadini delle due fazioni. Terminato il giuramento, i sei gemelli furono armati per il combattimento che avrebbe determinato la vittoria di un popolo. Il suono stridulo delle spade cominciarono a sbattere contro le ferraglie nemiche, gelando gli animi dei presenti. L’esito era incerto. Poi, i primi schizzi di sangue determinarono la morte di due gemelli Orazi, i quali infilzati come polli, stramazzarono al suolo. Dopo poco, si era già sul due a zero per i Curiazi. Roma era sull’orlo del baratro. Urli di gioia salirono alti dalla popolazione albana, i quali pregustavano la vittoria. Dalla parte romana, palesemente serpeggiava sbigottimento e incredulità, per l’esito avverso del combattimento. Le loro speranze erano ridotte al lumicino. Publio Orazio, il terzo gemello rimasto in piedi, per paura di morire, cominciò a darsela a gambe come un gallinaccio, zigzagando nella pianura, inseguito dai tre gemelli Albani, i quali gettavano sui romani anche l’onta della vergogna. La fuga del ragazzo era febbrile e sconclusionata. Fuggiva dal nemico e dalla paura d’essere ammazzato. Nessuno avrebbe scommesso sulla sua salvezza e neppure egli stesso, lanciato a tutta birra verso una impossibile salvezza. Lo scontro era appena iniziato e già si delineavano i vincitori, ma, in realtà, la partita era ancora tutta da giocare, con possibili capovolgimenti di fronte. Il plotoncino dei guerrieri inseguitori si distanziò e quando l’Orazio fu raggiunto dal primo cugino, istintivamente, con uno scatto felino si voltò e penetrò la sua spada nel corpo del nemico, infilzandolo come una salsiccia. Poi, quando l’Orazio fu raggiunto anche dal secondo cugino, ripetette la mossa precedente, facendo stramazzare anche il secondo Curazio. Ora la disputa era in parità. Due a due. La strategia vincente fu ripetuta anche sull’ultimo Curiazio, il quale testardamente ripeté l’errore dei due precedenti gemelli, restando anch’esso trafitto. La disputa era finita ad appannaggio dei romani.

Orazio Publio palpitava dalla paura. Il suo cuore era sconvolto per la gioia d’averla scampata grossa concedendo la vittoria al suo popolo e la tristezza per aver soppresso i suoi cugini. Gli storici sono concordi nell’affermare che quella del ragazzo fu pura strategia. Quello che stupisce è che almeno il terzo guerriero Albano avrebbe dovuto capire l’antifona e cambiare strategia. Ma non lo fece. L’ovazione riservata dai romani al suo eroe fu immensa. Poi, ciascun popolo seppellì i propri soldati periti, nel punto esatto dove caddero. E le tombe esistono ancora. Al V miglio della via Appia, una curva evita i tumuli celebrativi, eretti in memoria della battaglia tra Orazi e Curiazi. Una struttura cilindrica, dal diametro di 15 metri, con un nucleo interno in tufo e materiale vulcanico con rivestimento di travertino fu rinvenuto negli scavi. Il corpo, alto oltre 8 metri, presenta una corona e un mausoleo a piramide alto 20 metri.

I due eserciti, con differenti stati d’animo, presero la via delle rispettive città, non prima che Tullo raccomandasse Mezio, di tenere l’esercito pronto, nel caso di un attacco di Veio. Mentre l’esercito s’avvicinava alle mura di Roma, con in testa l’eroe, incrociarono la sorella di Publio, promessa sposa di uno dei cugini uccisi. Quando la ragazza riconobbe il mantello che lei stessa aveva donato al suo promesso sposo sulle spalle del fratello, sciogliendosi i capelli, scoppiò in un pianto dirotto e con grida inopportune, in quel frangente di gloria, cominciò a declamare: “Vergognati, non sei un eroe, come la folla vuole farti apparire. Sei un assassino.” Irritato dal pianto della sorella e confuso per tutto quello che stava accadendo, in uno scatto d’ira, estrasse la spada e la penetrò, dicendo: “Vattene dal tuo fidanzato, con il tuo amore giovanile, tu che non pensi ai fratelli morti, né a quello vivo e alla patria. Possa morire in questo modo ogni romana che piangerà i nemici.”

La sorella trafitta, cadde a terra priva di vita. E poiché, gli eventi della vita cambiano in un baleno, colui che era acclamato, portato in trionfo da una folla festante, stava per essere condotto davanti al patibolo. Dopo aver vinto e aver salvato la patria, l’ingenuo ragazzo si sentiva autorizzato a ogni gesto, persino a uccidere impunemente sua sorella, senza immaginare che per quel delitto atroce, avrebbe dovuto affrontare un giudizio. Portato al cospetto del re, il ragazzo fu dirottato di fronte a due cittadini, nominati per giudicarlo di lesa maestà o in subordine, giudicato dal popolo. Tale delitto prevedeva che il condannato, appeso a un albero secco, a capo coperto, fosse fustigato sino alla morte. E il giudizio per il reato ascritto fu di colpevolezza.

Un momento prima che il proscenio dipingesse il crudele atto finale, il padre del carnefice e della stessa vittima, con un gesto disperato irruppe sulla scena, cercando di calmare il popolo e difendere suo figlio dalla morte, chiedendo clemenza per un ragazzo che pur macchiatosi di un delitto infame, aveva salvato il popolo romano. L’incaricato stava per legarlo, quando Orazio, padre di Publio, impugnata la sentenza, chiese il rinvio per demandare il giudizio al popolo. La mattina seguente, in una piazza colma all’inverosimile ci fu il dibattito. La testimonianza del padre del ragazzo, sosteneva la giustezza dell’azione del figlio, replicando che se non lo avesse fatto avrebbe avuto il suo rimprovero. Poi, implorò il popolo di lasciargli l’ultimo della sua numerosa prole. Abbracciandolo continuò: “Ce la farete, o Quiriti, a vedere frustato a morte, questo soldato che solo ieri avete trionfalmente osannato? Vai littore, lega le mani all’eroe che ha consegnato Alba Longa ai romani. Vai, incappuccia la testa al salvatore del popolo e appendilo a un albero rinsecchito e frustalo. In quale posto eseguireste la sentenza, senza capire l’assurdità del verdetto?”

L’accorato discorso di Orazio e la tempra del giovane eroe, rimasto impassibile alla sentenza e alla straziante difesa del padre, fece tale presa sugli astanti, da riuscire a placare la loro ira e salvare la pelle all’ultimo dei suoi figli, poiché il popolo propese per l’assoluzione. Alla sorella fu elevato un sepolcro in pietre quadrate, nel sito dove fu trucidata.

Lo scontro tra Orazi e Curiazi sancì la sottomissione di Alba Longa al potere di Roma, costringendo il re Mezio Fufezio, a sostenere tutte le guerre intraprese da Roma. Gli Albani se la presero con Mezio Fufezio, per aver messo nelle mani di tre ragazzi le sorti di un’intera città. Poi, per recuperare la fiducia dei concittadini, dovette diventare sleale nei confronti dei romani. D’altronde, conoscendo i suoi concittadini, più propensi alle lamentele che a combattere valorosamente, tentò d’indurre i popoli vicini a scatenare una guerra contro Roma, recitando la parte dell’alleato e al momento opportuno schierarsi al fianco dell’opposta fazione.

Quindi, Tullo Ostilio chiese al re albano Mezio Fufezio, di rispettare i patti e assoggettarsi a Roma, ma il sovrano, facendo spallucce, venne meno ai patti. Mezio s’accordò segretamente con Fidene e Veio, affinché insieme potessero sconfiggere i romani. Gli eserciti di Fidene e Veio, attraversarono il fiume Aniene e s’accamparono alla confluenza con il Tevere. Romolo aveva già affrontato e vinto sia Fidene che Veio, ma non le aveva assoggettate. Tullo Ostilio comincia a fronteggiare l’esercito di Veio, ordinando agli albani di fronteggiare le truppe di Fidene. Senza manifestare le sue intenzioni, Mezio sposta le sue milizie sulla dorsale della collina, per scendere in campo il più tardi possibile e schierarsi con la fazione che dimostrasse più possibilità di vittoria. Tullo avverte la minaccia e gridando ad alta voce, per essere ascoltato dai nemici, ordina agli albani di recarsi sulla collina e accerchiare l’esercito di Fidene, i quali per paura d’essere veramente accerchiati, scapparono e i romani dopo averli inseguiti, li accopparono.

Poi, toccò all’esercito di Veio fare la stessa sorte. Il massacro fu totale. “Non alia ante romana pugna atrocior fuit.” Mai nessun’altra battaglia precedente era stata tanto atroce. Gli Albani, dopo aver deciso da che parte stare, completando l’accerchiamento, con poche stoccate finirono le ultime frange nemiche, simulando la loro partecipazione. Poi, l’esercito albano scese dalla collina e Mezio si recò al cospetto di Tullo Ostilio, per congratularsi dell’esito della battaglia, il quale indisse un sacrificio rituale per il giorno seguente. All’alba l’esercito Albano fu circondato dalle truppe romane. Tullo Ostilio, dopo aver ringraziato tutti per il loro coraggio, rivelò che il re albano aveva avuto l’intenzione di tradire Roma.

“Romani, mai in altre guerre c’è stato fondato motivo di ringraziare prima gli dei immortali e poi il vostro valore. Infatti, non avete lottato e vinto solo contro i Fidenati e i Veienti, avete anche dovuto affrontare l’infido tradimento degli alleati, molto più pericoloso che combattere contro i nemici con le armi in pugno. Gli albani si sono spostati verso i monti, non su mio ordine. Quello che avete sentito uscire dalla mia bocca, era solo un espediente per non farvi capire che eravate stati abbandonati e non crearvi pericolose angosce e allo stesso tempo impaurire i nemici, inducendoli a credere di essere circondati e in trappola. Ma, i soldati albani non sono responsabili della carognata. Loro hanno seguito il loro capo, come avreste fatto voi, se avessi ordinato una qualsiasi manovra. Mezio ha comandato lo spostamento. Lo stesso Mezio ha architettato questa guerra e ha rotto il trattato tra i romani e gli albani. Potrei uccidervi tutti ma non lo farò. È mia intenzione trasferire tutti gli abitanti di Alba Longa a Roma e concedere loro la cittadinanza. Nominare senatori i più nobili e formare una sola città e un solo Stato. Mentre per te, Mezio Fufezio che sei stato il vero traditore, ho in serbo qualcosa di speciale. Per fare in modo che nessun altro possa ripetere simili tradimenti, ti darò una lezione che rimarrà per sempre impressa nella mente degli uomini. Se tu potessi imparare la lealtà e il rispetto dei patti, ti lascerei in vita. Ma, siccome sei incorreggibile, insegna agli uomini, con il tuo supplizio, a tenere per sacri i vincoli del giuramento. Giacché la tua anima sul campo di battaglia era divisa tra Roma, Veio e Fidene, dividerò anche il tuo corpo.” Tullo Ostilio.

Tullo fece avvicinare due quadrighe e ordinò di stendere a terra Mezio. Legato a esse, i cavalli furono incitati in direzioni opposte, dilaniando il suo corpo. L’orribile spettacolo che ne scaturì, lasciò gli spettatori esterrefatti. Nessuno riuscì a guardare la scena sino in fondo. Tullo inviò la cavalleria ad Alba Longa, per trasferire la popolazione albana a Roma. Poi, i legionari distrussero le costruzioni, risparmiando solo i templi. In un giorno furono annullati quattro secoli di storia e la cittadina scomparve dalla faccia della terra. Si udiva l’ariete abbattere tutto ciò che puntava, nello sbigottimento della popolazione che vedeva perdere tutti i loro averi, tra le urla dei legionari che intimavano di togliersi di mezzo. La polvere s’alzava per l’infrangersi al suolo delle strutture, elevate con cura e dovizia nei secoli.

Con l’ammissione della popolazione albana, Roma raddoppiò d’un colpo la popolazione. Il Celio fu completamente occupato dagli albani e per rassicurali, Tullo vi stabilì anche la sua residenza. Alle famiglie nobili albane furono date delle nomine senatoriali. I Tulli, i Servili, i Quinzi, i Curiazi, i Cleli, i Gegani, sedettero accanto ai senatori romani. Per il nuovo senato fu costruita la curia Ostilia. Anche l’esercito albano rimpinguò quello romano, istituendo nuove legioni e squadroni di cavalleria. Roma era diventata l’incubo delle popolazioni laziali. Tullo Ostilio visse per l’espansione di Roma. Nell’accogliere gli abitanti delle città sconfitte, adeguò i perimetri cittadini, impedendo che il popolo perdesse tempo nei riti religiosi.

Poiché i romani vivevano nel luridume, lentamente la peste s’impossessò dell’Urbe e Tullo, infischiandosene, imperterrito, seguitò a impartire addestramenti militari, sino a quando, anch’egli colpito, preso dalla tremarella, diventò un altro uomo. Abbandonando le spoglie del bellicoso e dell’iracondo, divenne il più devoto di tutti. Passava tutto il giorno a pregare, dedicando la sua vita al culto degli dei. Ogni parvenza d’ateismo era miracolosamente sparita, ma non la peste che continuava a tartassarlo, peggiorando di giorno in giorno la sua situazione. Fiaccato nel fisico e nella mente, non sapendo più a che santo votarsi, decise di ricorrere alle scritture di Numa Pompilo.

In una notte tempestosa, Tullo decise di mettere in azione il rituale d’evocazione di Giove, per guarirlo dalla malattia. Tullo riuscì a chiamare l’attenzione di Giove, ma in maniera erronea, il quale stizzito dalla sua arroganza e insistenza, poiché infastidiva un dio per una faccenda di poco conto, gli inviò una saetta che lo lasciò secco sul colpo, bruciandolo insieme alla sua dimora. La conversione fu considerata tardiva. L’evento fu interpretato come una punizione divina, per il suo smisurato ego e monito per i romani a scegliere un re con più oculatezza, uno che seguisse i dettami di pace di Numa Pompilio. Il re guerriero aveva governato per trentadue anni. Roma doveva riprendere il culto sacro e la religiosità. L’ateismo di Tullo Ostilio doveva essere eliminato e la speranza generale era quella di riavere un sovrano religioso.





 

Anco Marzio l’Iracondo


Anco Marzio, Ancus Marcius, nacque nel 675 a.C. e morì nel 616 a.C.. Fu il quarto re di Roma e il secondo e ultimo di origine sabina. Anco, appartenente all’antica gens Marcia, fu favorito all’ascesa al trono dalla parentela con Numa Pompilio, di cui era nipote per parte di una figlia. Regnò per 24 anni, dal 642 al 616 a.C..
Alla morte di Ostilio, trapassato senza eredi, il potere tornò nelle mani dei patres, i quali nominarono un reggente. Poi, si ricordarono di Pompilia, figlia di Numa e di suo marito Marzio, morto suicida per la delusione di non essere stato eletto re, i quali avevano procreato un marmocchio chiamato Anco Marzio, nipote di Numa Pompilio.
Anco Marzio, come suo nonno attento alla religione, governò con saggezza e lungimiranza, infatti, entrambi furono rappresentati sui denarii. Ma quel tizio pur ripristinando le faccende religiose, si mostrò anche propenso alle guerre. Una via di mezzo tra il bellicoso Romolo e il tranquillo Numa Pompilio. Estese i confini sino al mar Tirreno, creando la prima colonia romana a Ostia, sotto forma di porto, dopo aver reso il Tevere navigabile, per 16 miglia sino a Roma. Con Ostia nacquero le prime saline e i primi scambi marittimi con le città vicine. Il sale fu distribuito gratuitamente alla popolazione e commerciato con i popoli vicini, ricevendone in cambio legna per la costruzione di case e del ponte Sublicio, a sud dell’isola Tiberina. Conquistò le cittadine di Ficana e Politorium, giacché si trovavano nella direzione dove sarebbe nata la via Ostiense. Costruì il foro Boario, un posto già utilizzato agli scambi commerciali e dove convergevano le vie del sale dalla Campania, le vie della transumanza da nord, la via Salaria e le vie commerciali per gli scambi tra le città Etrusche del nord e quelle Latine del sud. Fece costruire il primo ponte romano, chiamato Sublicio, collegando Roma con il Gianicolo. Il territorio era Etrusco, ma con la costruzione del ponte, il colle fu annesso a Roma e fortificato con delle mura. Ai pontefici ordinò d’incidere su tavolette ed esporle nel Foro, le disposizioni sacre che Pompilio aveva stabilito. I riti furono eseguiti dai Feziali, perché la guerra dichiarata ai nemici non dispiacesse agli dei e potesse essere una guerra giusta.
I Latini Prischi, pur avendo stipulato un accordo durante il regno di Tullo Ostilio, all’inizio del mandato di Anco Marzio, razziarono la campagna romana. Quando l’Assemblea deliberò per un risarcimento danni, con arroganza negarono, pensando che quel re non si sarebbe vendicato, preso dai riti religiosi. Ma, Anco Marzio decise di fargliela pagare e dopo quattro anni di combattimenti, conquistò nuovamente Medullia, dopo che la colonia era tornata latina. La stessa sorte toccò agli abitati di Tellenae e Ficara. Poi, dopo altri due anni di guerre, i romani saccheggiarono Fidenae. Poi, vinsero nei pressi di Campus salinarum, contro la città di Veio che pretendeva di riavere i possedimenti persi all’epoca di Romolo. L’anno seguente vinse i Volsci che dopo aver razziato le campagne romane, si erano ritirati nelle mura di Velitrae.
Anco Marzio riprende l’espansione verso sud, contro i Latini, cosi come aveva fatto il suo predecessore, trasferendo tutti gli autoctoni di quelle terre a ingrossare le fila del popolo romano, sull’Aventino e nella Valle Murcia. Mentre gli albani avevano conservato i privilegi, poiché considerati parenti dei romani, i latini furono giudicati degli immigrati e declassificati a plebei.
I primi romani abitarono il Palatino. Con il congiungimento dei sabini si estesero sino al Campidoglio. Poi, gli Albani si disposero sul colle Celio. Ai Latini Prischi fu assegnato il colle Aventino, nel quale, in seguito furono posti anche gli abitanti di Tellene e Ficana. Alla morte di Tullo Ostilio, Roma era più potente e sicura. Fece costruire un grande carcere nel centro della città per scoraggiare la crescente criminalità. Anco Marzio morì lasciando due figli, uno dei quali ancora bambino. Nel suo regno di venticinque anni, dette modo all’etrusco Tarquinio di sistemarsi nella città e diventare il quinto re di Roma. 





Testo tratto dal libro sull'Impero Romano: 

"Voci dall'Antica Roma"






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viernes, 1 de marzo de 2024

Poesie

 




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         CV Exposición Individual de Fotografías:                 "Fontane Romane" del 9 al 24 de Marzo,                       en la Galeria de Arte, MAXART.










                                                            

Giungerà  la  morte

 

Giungerà la morte

 e l’ultima immagine in me riflessa,

sarà lo sguardo tuo tenero e commosso.

Io sopravvivrò nel pensiero e nel rimorso,

d’un amore non detto ma accennato,

d’una carezza pensata e non lanciata.

Avrai nella gola un grido soffocato

e una fragranza per pudore mai esibita.

Da donna premurosa e radiosa,

tranquilla in tregua in battaglia impetuosa,

hai abbeverato i miei folli capricci

e patito dalle mie corde impicci,

nel buio e nella luce risolte paziente,

senza che ti chiedessi niente.

 La donna perfetta la donna ideale,

che con un sorriso ti cambia il labiale,

ma per far felice un difficile grugno,

tienimi con dolcezza nel pugno. 

Ho bramato il tuo corpo sensuale,

ho voluto delle creature tue d’amare,

ho scalato montagne al tuo fianco,

d’umore e d’azione cambiato a un cenno,  

ma ora la fine è vicina e cambia il volto,

della mente dell’anima e sono stravolto.

Tu ricorda solo quello ch’ero a mezz’aria,

quando il muso e la mente reggevano anche la   fame.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sparita   

 

Mi cadde dal nulla neanche pensata,

per scaltra trovata d’un altrui furbata,

lei una stellina più lucente di altre,

risuonò nel cuore come campana nel valle

e nel mio stomaco uno sciame di farfalle.

Ma il suo tempo era uguale a quello del suono

e con lui se ne andò senza frastuono,

sparita nei sogni sparita nel senno,

tal volta la penso confuso e sgomento,

senza perdono nei momenti di sdegno.

Durò un’estate quella storia affrescata,

per me d’un candore ma in fondo dannata.

Poi, il nulla. Sei andata. Sei morta.

Ne una riga una parola che importa.

Ora che tanto tempo è passato,

mi sembra che la storia non sia mai esistita,

eppur la mia più bella vicenda vissuta.

Ci sono lacrime che non arrivano agli occhi,

e ferite che non arrivano al cuore,

ma il tempo che ancora racconta la storia,

dice che fu intensa tanto che ancora non muore.

Negli orti zeppi di geometrie ascendenti,

molto si smosse tra i miei affetti ardenti, 

l’hai voluto cosi e i miei frutti or stecchiti,

son semi di zucca son noci son fichi,

furono preda di animi ambiti.

Che questa storia scritta da una stella,

nell’assurdità del tormentoso destino,

sia malinteso di un maldestro cugino,  

ma al caldo tepore d’un agiato camino,

o di fronte a un nervoso plotone,

porti a una sola semplice riflessione.

 

 




 

 

 

 




 

Spogliati

 

Non aver paura di mostrare le tue pieghe,

non entrerai negli intrecci delle scure beghe,

io senza indugio mostro il mio corpo arricciato

e tu ancor pieno di fiori colorati hai il tuo prato.

Scopriti serena come mostri le tue visioni schiette,

mostrami il voluttuoso corpo e le tue mitiche tette,

potrebbe avere lesioni ma anch’io ne sono pieno,

spogliati calda e intima senza tirare il freno.

E quando sarai come un albero d’autunno spoglia,

mi dirai leggiadra che ancora ne hai voglia,

ci daremo una carezza con un bel sorriso,

che spunterà dal tuo sensuale e pregiato viso.

L’angoscia ripudiata e le tue vane pene,

 terranno il cuore vivo per volerci ancora bene. 

 

 











 

 

L’isola  del  teschio  

 

Tutte le notti viene a trovarmi la morte.

Con il volto nero lucente un ghigno ammiccante,

con i denti alla vista e le pupille sgranate. 

Pur aspettando con smania la preda,

mi lascerà marcire nel mio letto candito,

perché non sono ancora del tutto finito.

Verrà anche domani con la turbata speranza,

che il tempo è maturo e che ne ho abbastanza.

Sarà una sera che aspetto da anni,

 per levarmi di torno una vita d’inganni.

Senza riscontri. Ma che vita è stata?

E imbroglia perversa ogni anima persa.

Le iniziative le invettive le false speranze.

Sono una truffa di un malgusto fatale

e quando s’accorge non accetta d’entrare.

Tornerà poi domani per il mio scalpo ribelle.

Gli servirà per guardarlo e tirare un sospiro

o lo userà da alimento nel suo gioco cruento?

Giungerà sul mio corpo per portarlo in stazione,

per lanciarlo rapito come un colorato aquilone,

nel buio primordiale mi tirerà con piacere,

come prima di nascere annullerà le mie pene.







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