viernes, 1 de abril de 2022

Flying Fox

 

       LXXXII Exposición Individual de Fotografías:                     "Flores XII" del 8 al 23 de Abril,                             en la Galeria de Arte, MAXART.




Lì, dove Cristoforo Colombo, 530 anni or sono approdò con la sua caravella, ormeggiandola a un albero ancora esistente, ma fossilizzato, pochi metri più in là, a Santo Domingo, in quello stesso fiume chiamato Rio Ozama, la sera del 21 marzo 2022, ha attraccato un’imbarcazione dal valore di mezzo miliardo di dollari. Il Flaying Fox. Lungo 136 metri, per navigare abbisogna di 50 membri d’equipaggio.  



















































































































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martes, 1 de marzo de 2022

Carnaval de Santo Domingo 2022

 


      LXXXI Exposición Individual de Fotografías:                     "Niños II" del 4 al 19 de Marzo,                               en la Galeria de Arte, MAXART.




















































































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martes, 1 de febrero de 2022

Guaraguao

 

    LXXX Exposición Individual de Fotografías:                "Cuestión de Detalles III" del 4 al 19                 de Febrero, en la Galeria de Arte, MAXART. 






























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sábado, 1 de enero de 2022

Carmine Crocco IV

 


       LXXIX Exposición Individual de Fotografías:         "Paisajes Internos Dominicanos II" del 7 al 22            de Enero, en la Galeria de Arte, MAXART. 




Vita del brigante lucano Carmine Crocco 

Quarta e Ultima Parte


Il 14 settembre 1863, a Rionero, Giuseppe Caruso, fino a quel momento uno dei migliori aiutanti di Carmine Crocco, lasciò la banda e rivelò informazioni sull’organizzazione al generale Emilio Pallavicini, il quale fece arrestare tutti i parenti dei briganti menzionati da Caruso, ordinò la sorveglianza delle case sospette e fece travestire gruppi di soldati da briganti. Per queste misure, il numero di scontri a fuoco favorevoli al regio esercito aumentò e i briganti catturati, invece di essere giudicati da un tribunale militare, erano freddati sul posto. Anche i notabili che avevano fatto promesse d’aiuto a Crocco, intuendo la fine prossima della sua associazione, presero le distanze per opportunistici sentimenti liberali. Con i suoi pochi seguaci, Crocco fu accerchiato dai Cavalleggeri di Monferrato e di Lucca e costretto a dividere la sua banda, in gruppi ancora più piccoli, nei boschi di Venosa e Ripacandida. Li trascorse i mesi invernali, ritornando alla ribalta nel successivo aprile, alla guida di soli 15 uomini. Il 25 luglio 1864, le truppe di Pallavicini lo sorpresero sull’Ofanto, decimando il suo drappello, riconoscendogli le grandi qualità militari e di guerriglia.

Crocco riuscì a scappare, tallonato dai regi bersaglieri. Evitando i centri abitati e attraversando monti e foreste, giunse con alcuni suoi uomini nello Stato Pontificio, il 24 agosto 1864, sperando di poter incontrare a Roma, Poi IX, il quale aveva sostenuto la causa legittimista. Ma, Carmine fu catturato il giorno seguente a Veroli, dalla gendarmeria del papa e incarcerato a Roma. Gli eventi suscitarono in lui una profonda delusione, anche perché oltre all’arresto gli fu confiscata una cospicua somma di denaro. Il 25 aprile 1867, a Civitavecchia, Crocco fu imbarcato su un vapore delle Messaggerie Imperiali Francesi, per Marsiglia. Giunto nei pressi di Genova, il governo italiano intercettò il vascello catturando Crocco, ma Napoleone III ne reclamò il rilascio, sostenendo che non avessero il diritto d’arresto su una nave di un altro Stato. Dopo un breve periodo di detenzione a Parigi, Crocco fu rispedito nello Stato Pontificio, a Paliano e con la presa di Roma, da parte dei Sabaudi, del 1870, passò nelle mani dello Stato italiano, traferito prima ad Avellino e poi a Potenza.

Per la fama raggiunta, durante i passaggi da una prigione all’altra, numerose persone accorrevano per vederlo. Durante il processo tenuto presso la Corte Criminale di Potenza, al brigante furono imputati 67 omicidi, 7 tentati omicidi, 4 attentati all’ordine pubblico, 5 ribellioni, 20 estorsioni, 15 incendi di case, con un danno di oltre 1.200.000 lire. Dopo 3 mesi di dibattimento, l’11 settembre 1872, la Corte di Assise di Potenza, deliberò la condanna a morte, con le accuse di omicidio volontario, formazione di banda armata, rapina, sequestro di persona e ribellione contro la forza pubblica. Poi, con decreto reale del 13 settembre 1874, la pena fu misteriosamente commutata in lavori forzati a vita. Altri briganti con capi d’imputazione simili furono giustiziati. Le ragioni furono a sfondo politico e lo Stato italiano subì il volere francese. Crocco durante l’interrogatorio, sostenne che le autorità papali non poterono liberarlo, poiché sarebbero state accusate dal Governo italiano di favoritismo verso i briganti. Dopo la sentenza, il brigante fu trasportato nel carcere di Santo Stefano e poi in quello di Portoferraio, in provincia di Livorno, dove passò il resto dei suoi giorni. Durante la vita da carcerato, Crocco si mantenne calmo e disciplinato. Rispettato dagli altri detenuti per l’autorità del suo nome, non si unì mai alle proteste e baruffe degli altri carcerati, prestando soccorso ai necessitati. 

Nel carcere di Santo Stefano, fu visitato per dieci mesi dal criminologo Pasquale Penta. Nonostante il direttore del presidio lo definiva pericolosissimo e da tenere sotto stretta osservazione, Penta non riscontrò in lui tali necessità.

“Capace di grandi reati, ma anche di generosità, di sentimenti nobili, di belle azioni, la causa della sua carriera criminale è il germe della pazzia materna. Nella sua attività criminale fu autore di mille delitti, saccheggi di città, incendi, omicidi, ricatti, estorsioni, ma, allo stesso tempo cercò di tenere a bada i suoi bestiali subalterni e trattò a tu per tu con i generali italiani. Imponeva che fossero rispettate le donne oneste, maritate e zitelle, che non si facesse del male oltre il necessario e non si eccedesse nella vendetta, per compiere la quale era inesorabile. A molte ragazze che non avevano come maritarsi, regalò denaro e ai poveri contadini comprò armenti ed utensili di lavoro.”

Vincenzo Nitti, figlio del medico massacrato a Venosa, militare della Guardia Nazionale e testimone oculare dei fatti, lo considerò un ladro per indole, ma anche un brigante non comune, per astuzia, ardire e per generosità brigantesca. Nel 1902, a Portoferraio, giunsero gli studenti di medicina legale dell’Università di Siena, del professore Salvatore Ottolenghi, per intervistare i condannati, a scopo scientifico. Ottolenghi ebbe un colloquio con Crocco, considerato il vero rappresentante del brigantaggio dei tempi celebri, definendolo il Napoleone dei briganti. L’intervista fu pubblicata l’anno successivo da Romolo Ribolla, studente di Ottolenghi, nell’opera, Voci dall’ergastolo. Durante la conversazione l’ex brigante, ormai vecchio, con problemi fisici e dichiaratosi pentito del suo passato, raccontò la sua vita, lasciandosi andare anche al pianto. Elogiò Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II, per avergli concesso la grazia, anche se negli scritti autobiografici, il ringraziamento non era per aver avuto salva la vita, ma per aver preservato i suoi familiari dall’obbrobrio di sentirsi dire che fossero parenti dell’impiccato. Dichiarò d’essere rimasto scosso dall’assassinio del re Umberto I, ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci. Il suo desiderio era morire nel paese natio, ma Crocco si spense nel carcere di Portoferraio, il 18 giugno 1905, all’età di 75 anni, di cui gli ultimi 29 passati in detenzione.

Carmine, dotato di un fisico robusto e un’intelligenza fuori dal comune, era alto un metro e settantacinque centimetri. Fu legato a una donna chiamata Olimpia. In seguito ebbe una relazione con Maria Giovanna Tito, conosciuta quando si aggregò alla banda, mettendo fine alla relazione con Olimpia. Poi, la Tito fu lasciata, poiché Carmine s’invaghì della vivandiera di Agostino Sacchitiello, di Sant’Agata di Puglia, luogotenente di Crocco. Nonostante la fine della loro relazione, Giovanna continuò a servirlo fedelmente, fino a quando nel 1864, fu arrestata. Carmine ebbe una relazione anche con Filomena Pennacchio, poi compagna del suo aiutante Giuseppe Schiavone.

Durante la detenzione, Carmine Crocco iniziò la stesura delle sue memorie, realizzata in tre manoscritti, ma il terzo fu smarrito dal professor Penta. Elaborato con l’ausilio del capitano Eugenio Massa, fu pubblicato, includendo l’interrogatorio di Caruso, nell’opera, Gli ultimi briganti della Basilicata: Carmine Donatelli Crocco e Giuseppe Caruso, 1905. Le sue memorie sono ancora oggetto di dibattito. Secondo Pedio Tommaso, alcuni episodi non erano fedeli. Benedetto Croce disse che le memorie fossero bugiarde. Basilide Del Zio considerò veri gli scritti, per la descrizione esatta di persone, luoghi, paesi, campagne, anche se Crocco mentì in molti punti, occultando molte sue brutalità. Indro Montanelli disse che si trattava di un componimento viziato dall’enfasi e dalle reticenze, ma descrittivamente efficace e sincero sulla vita dei briganti. L’opera fu pubblicata più volte da diversi autori, quali Tommaso Pedio, Manduria, Lacaita, 1963; da Mario Proto, Manduria, Lacaita, 1994; da Valentino Romano, Bari, Mario Adda Editore, 1997. Una versione che non subì alcuna revisione linguistica fu pubblicata dall’antropologo Francesco Cascella, nell’opera, Il brigantaggio: ricerche sociologiche e antropologiche, nel 1907. Benché una parte della storiografia dell’Ottocento e inizi del Novecento lo considerasse un ladro e un assassino, dopo la seconda metà del Novecento fu rivalutato come un eroe popolare, anche se la sua figura rimane controversa.

 




 




 


Alcuni luogotenenti di Carmine Crocco:

Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco, di Avigliano, condannato per aver ucciso un aggressore, evase dandosi alla macchia. Si aggregò a Crocco, diventando uno dei suoi più brillanti luogotenenti. Conosciuto per la sua brutalità, non compì nessun gesto generoso. Fu ucciso dalle guardie nazionali, in una imboscata.

Giuseppe Caruso, detto Zi Beppe, di Atella, guardiano campestre, si diede al brigantaggio, dopo aver ucciso una Guardia Nazionale, nel 1861. Tradì Carmine informando le autorità, decretando la sua fine. Fu ricompensato con la nomina a guardia forestale di Monticchio.

Vincenzo Mastronardi, detto Staccone, di Ferrandina, evase dal carcere per reati comuni, nel 1860. Come Crocco, non ricevette la grazia dopo aver aderito ai moti unitari. Catturato, fu ucciso nel 1861.

Teodoro Gioseffi, detto Caporal Teodoro, di Barile, guardia campestre. Arrestato, fu condannato ai lavori forzati a vita.

Francesco Fasanella, detto Tinna, di San Fele, ex militare borbonico, tornato al suo paese fu schernito per averli serviti, soprattutto da Felice Priora, un tenente della guardia nazionale. Un giorno Priora gli diede uno schiaffo, Tinna lo spinse per terra e fuggì nei boschi. La moglie, incinta di sette mesi, fu fucilata per ordine di Priora. Tinna ammazzò il tenente, unendosi a Crocco. Si costituì nel 1863. Condannato a vent’anni di reclusione, fu rilasciato nel 1884, tornando nel paese natio.

Giuseppe Schiavone, detto Sparviero, di Sant'Agata di Puglia, sergente borbonico, s’unì ai briganti di Crocco per non prestare giuramento all’esercito italiano. Tra quelli meno efferati, fu condannato a morte tramite fucilazione.

Donato Antonio Fortuna, detto Tortora, di Ripacandida, mandriano, ex militare borbonico, si dette alla macchia dopo aver rifiutato di arruolarsi nell’esercito dei Savoia. Ereditò da Crocco, la banda del brigante Di Biase, dopo la sua morte. Costituitosi a Rionero, fu condannato nel 1864, ai lavori forzati a vita.

Giovanni Fortunato, detto Coppa, di San Fele, da Crocco definito il più feroce, temuto dai suoi stessi commilitoni. Non provava pietà nemmeno verso le persone a lui più vicine, infatti uccise suo fratello perché aveva saccheggiato una masseria, senza il suo consenso. Figlio illegittimo di un barone e di una popolana, crebbe nella famiglia di Crocco, il quale era molto legato a lui. Arruolatosi nell’esercito borbonico e ritornato a San Fele, dopo la caduta del regno delle Due Sicilie, fu insultato e picchiato da alcuni compaesani, unendosi alla banda del suo amico. Fu assassinato nel giugno 1863, forse da Donato Tortora Fortuna, per riparare alla violenza carnale nei confronti della sua donna, Emanuela, dopo aver ricevuto il permesso da Ninco Nanco. In un’intervista del 1887, Francesco Tinna Fasanella s’accusò dell’omicidio, poiché diceva che Fortunato voleva ogni giorno qualcuno da uccidere.

Pasquale Cavalcante, di Corleto Perticara, ex soldato borbonico, tornato nel suo paese natale fu umiliato. Poi, una guardia nazionale, durante un diverbio con la madre, la picchiò e le ruppe una costola. Cavalcante vendicò sua madre uccidendo l’aggressore. Unendosi all’armata di Crocco, fu uno dei comandanti della cavalleria. Catturato dopo la soffiata di Gennaro Aldinio, fu condannato a morte a Potenza, il primo agosto del 1863. Prima di essere giustiziato disse: “Merito la morte perché sono stato assai crudele, contro parecchi che mi caddero tra le mani. Ma merito anche pietà e perdono perché contro mia indole, mi hanno spinto al delitto. Ero sergente di Francesco II e tornato a casa come sbandato, mi si tolse il bonetto, mi si lacerò l’uniforme, mi si sputò sul viso e poi non mi si diede più un momento di pace, perché facendomi soffrire sempre ingiurie e maltrattamenti, si cercò pure di disonorarmi una sorella. Accecato dalla rabbia e dalla vergogna, non vidi altra via di vendetta che quella dei boschi e così, per colpa di pochi, divenni feroce e crudele contro tutti. Io sarei vissuto onesto, se mi avessero lasciato in pace. Ora muoio rassegnato e Dio vi liberi dalla mia sventura.”

Vito di Gianni, detto Totaro, di San Fele, ex gendarme borbonico, fu tra gli ultimi luogotenenti a essere consegnato alla giustizia, decretando la fine dell’egemonia di Crocco. Fu arrestato nel febbraio 1865, convinto alla resa da Giuseppe Lioy, un sacerdote di Venosa, al quale Vito rispose perentorio: “Fummo calpestati. Noi ci vendicammo. Ecco tutto.”



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miércoles, 1 de diciembre de 2021

Carmine Crocco III

 


     LXXVIII Exposición Individual de Fotografías:  

        "In the City" del 11 al 26 de Diciembre, 

               en la Galeria de Arte, MAXART.




Vita del brigante lucano Carmine Crocco 

Terza Parte


Sono il generale di una banda brigantesca, con in testa un cappello piumato, una tunica ingallonata, un morello puro sangue, armato sino ai denti e un esercito di mille e duecento uomini che agiscono a ogni mio cenno. Sul far del giorno, del 10 agosto 1861, mi avvicino verso Ruvo del Monte, situato sul pendio di una collinetta, ombreggiata da fronzuti castagni e da ubertosi vigneti. Incontro villette e grosse masserie. Da lontano spicca una gigantesca torre che sovrasta il diroccato castello feudale, palesando l’antichità del villaggio. Mi fermo a mezzo miglio dalle prime case e scrivo una lettera al Sindaco ed alla Giunta: “Egregio Sig. Sindaco e Signori di Ruvo del Monte, sono qua non per farvi del male, ma per pregare le SS. Ill.me che abbiano la bontà di foraggiarmi 1200 uomini e 175 cavalli, pagando in oro sonante. Poi, proseguirò il mio cammino. Spero che lor nobili signori esaudiranno la mia preghiera e non mi obbligheranno a ricorrere alla forza. Concedo un’ora di tempo per rispondere. Carmine Donatello Crocco.

Dopo mezz’ora ricevo la seguente risposta: “Caro Carminuccio. Non possiamo accettare la richiesta fattaci. Essa non solo ci compromette con il Governo, ma tocca il cuore e il nostro amor proprio e siccome siamo ben forniti di cartucce e vogliamo provare la nostra polvere e il nostro coraggio, aspettiamo che ti faccia avanti con i tuoi pastorelli che ti faremo il piacere di uccidere. Il miglior consiglio che ti possiamo fare è quello che tu vada via, poiché fra poco arriveranno forze da Rionero, da San Fele e Calitri e sarà finita per tè e per i tuoi. Sindaco Blasucci.”

Dopo la lettura della lettera ai miei compagni dissi: “Giovinetti, bisogna vendicare col sangue non solo il rifiuto, ma l’insulto di averci chiamati pastorelli. Chi ha fegato mi segua.”

Disposi quattro centurie sul fronte che avanzarono furibonde sul paese, accolto da un fuoco di moschetteria ben nutrito, ma, poco diretto, mentre altri 200 uomini ebbero ordine di attaccare di fianco. I cavalieri li lasciai a guardia sulla strada di Rionero, con l’ordine di spingersi in avanti, per assicurarmi da ogni arrivo di truppe. Un’altra centuria la diressi sulla strada di Calitri, con lo stesso mandato. I rimanenti uomini agli ordini di Ninco Nanco, li lasciai dietro per la riscossa. L’attacco fu simultaneo e terribile.

In eterno onore di quei valorosi cittadini caduti, posso assicurare che disputarono palmo a palmo quella loro cittadella. Perduta la prima posizione avanzata, si appostarono sulla piazza. Cacciati anche di là, presero posizione sul largo della chiesa e dopo aver sparato tutte le cartucce, ingaggiarono una lotta corpo a corpo con i miei. Sopraffatti dal numero, tentarono di raggiungere la torre, ma trovata chiusa la via, si disposero a morire, quando le donne si buttarono piangenti fra i combattenti, implorando pietà e grazia per i loro padri, mariti e figli. Sulla torre sventolò bandiera bianca, così la lotta finì, ma le vie erano seminate di cadaveri, mentre i miei si davano al saccheggio. Le autorità sedevano nel palazzo del comune ed entrando trovai i consiglieri al loro posto. Ordinai mi fossero consegnati il ruolo della guardia nazionale, i fucili, le munizioni dei militi, la cassa del comune e quella della fondiaria. Mi si rispose che facessi terminare le stragi è l’incendio e sarei stato esaudito. Cosi fu fatto. Ricordando quella giornata, io mi domando ancora, dove quei poveri cittadini avevano potuto apprendere l’arte della guerra che in trecento, tennero fronte per diverse ore a mille uomini, affamati di piaceri e bottino. Quei prodi non avevano preso mai parte, né a piccole, né a grosse manovre, anzi la ferocia del governo borbonico proibiva loro di portare il fucile e per aver il porto d’armi dovevano pagare 5 scudi.

Perché il Borbone non seppe utilizzare il valore e l’eroismo dei figli di questa regione, tanto che il loro potente esercito fu messo in fuga da un pugno di giovinetti. I garibaldini. Ho visto le infamie che si commettevano in un quartiere militare borbonico. La frusta, il bastone e le fucilazioni sommarie e le tremende punizioni, tanto che in noi soldati prevaleva il concetto che il regno è tuo e dei tuoi sbirri e devi difendertelo, poiché io non morirò per la gloria tua e per conservare sul tuo capo la corona. Ma, come mai, io che conoscevo le infamie del Borbone, dopo la caduta di questi, mi sono rimescolato nel fango e combattuto per una causa che aveva destato in me tanto orrore? Poiché io avevo già le mani macchiate di sangue, la mia persona era cercata, lottavo per vivere.

 

Rionero in Vulture, 13 agosto 1861.

“Sig. Carmine Donatello Crocco. Rendo grazie della libertà accordata ai miei dipendenti caduti nelle vostre mani. Una seconda volta, nell’interesse del paese, di tante famiglie e nell’interesse vostro, io vi invito a deporre le armi e vi assicuro che non sarete fucilati e la causa vostra sarà rimessa alla clemenza sovrana. Domani non verremo per lasciarvi tempo per riflettere. Se, nonostante questa mia, insisterete a mostrarvi ribelle alla legge, sarò costretto a darvi la caccia per avervi vivo o morto.”


“Signori, a tutti ossequi. Non posso aderire alla vostra domanda, perché S. M. Vittorio Emanuele ha rigettato l’istanza dell’avvocato Francesco Guarini e rigetterà anche quella appoggiata dalla V. S. e siccome non voglio servire da trastullo a chi assisterebbe alla mia fucilazione, sono pronto a vendere a caro prezzo la vita. Ricordate che nel posto in cui mi trovo, nel 1808 fu trucidato un reggimento di Re Gioacchino Murat. Carmine Crocco”

 

Crocco si acquartierò a Toppacivita, nelle vicinanze di Calitri, dove il 14 agosto del 1861, fu attaccato dai regi soldati, i quali subirono una netta sconfitta. Dubbioso sulle sue sorti e per il mancato rinforzo più volte promesso dai filoborbonici, decise di sciogliere le sue schiere, per trattare la resa con il nuovo governo. Il barone piemontese Giulio De Rolland, nominato governatore della Lucania, era disposto a trattare con lui. Ma, il luogotenente del re, generale Enrico Cialdini, rispose di non accordare nessuna grazia, quanto ricompensare chi rendeva servigi. A questa notizia, Crocco tornò sui suoi passi e il 22 ottobre 1861, per ordine del generale borbonico Tommaso Clary, incontrò il generale veterano catalano José Borjes, nel bosco di Lagopesole, il quale, reduce dal fallito tentativo di scatenare la reazione popolare in Calabria, voleva tentarla in Lucania, trasformando la banda di Crocco in un esercito regolare, adottando disciplina e tattiche militari, per assoggettare i centri minori, dar loro ordinamenti e arruolando nuove reclute per conquistare Potenza e porre fine all’autorità sabauda in Lucania. Crocco non ripose alcuna fiducia nei suoi intenti, anche perché arrivato con soli 17 uomini. Inoltre era contrario alla sua strategia, ritenendo inutili gli attacchi ai centri abitati, considerando la guerriglia, unico modo per colpire il nuovo regime. Comunque, riconoscendo Borjes un esperto di guerra, accettò l’alleanza, anche se i loro rapporti non furono mai armoniosi. Poi, giunse il francese Augustin De Langlais, presentatosi come agente al servizio dei Borbone. Augustin era un personaggio ambiguo, descritto da Borjes come un generale che agisce da imbecille, pur partecipando a numerose scorrerie, da buon coordinatore dei movimenti.  

Crocco continuò le vecchie imprese, con inaudita violenza, benché contava quasi sempre sul supporto popolare. Raggiunte le sponde del fiume Basento, dopo aver reclutato nuovi militari, occupò Trivigno, mettendo in fuga le guardie nazionali. Il popolo si aggiunse ai predoni e il paese rapinato bruciò. La cittadinanza colta fuggì o si nasconde o morì con le armi in pugno. Caddero altri centri come Calciano, Aliano, Garaguso, Salandra e Craco. Il 10 novembre, Carmine ottenne una netta vittoria su un gruppo di bersaglieri e guardie nazionali, durante la battaglia di Acinello, uno dei più importanti conflitti del brigantaggio post unitario. Poi, anche Grassano, Vaglio, San Chirico Raparo, Guardia Perticara, furono messi al sacco, per la loro opposizione. Crocco giunse nelle vicinanze di Potenza, il 16 novembre 1861, ma, per divergenze con Borjes, l’armata dei briganti deviò su Pietragalla. Il 19 novembre tentò l'entrata in Avigliano, paese natale del suo luogotenente Ninco Nanco, ma il popolo unito con i borghesi, respinsero i briganti. Il 22 novembre occuparono Bella, Balvano, Ricigliano e Castelgrande, ma furono sconfitti a Pescopagano, lasciando 150 briganti tra morti e feriti. Impossibilitati a sostenere altre battaglie, Crocco ordinò ai suoi uomini, la ritirata verso i boschi di Monticchio.

Crocco ruppe i rapporti con Borjes, perché insicuro di poter seguitare a vincere e poiché non credeva più alla promessa del governo borbonico dell’invio di rinforzi. Il generale catalano si recò a Roma con i suoi uomini, per fare rapporto al re e nella speranza di riorganizzarsi con nuovi volontari e ritentare l’impresa. Ma, durante il tragitto, Borjes fu catturato dai regi soldati, capeggiati dal maggiore Enrico Franchini e fu fucilato con i suoi fedeli a Tagliacozzo, l’8 dicembre. De Langlais, sparì dalla scena, poco dopo. Con la fuoriuscita dei legittimisti stranieri, Crocco incontrò le prime difficoltà. Alcuni dei suoi uomini iniziarono ad agire contro i suoi ordini e tutti i paesi insorti e occupati furono riconquistati dalle autorità sabaude. I briganti e civili sospettati di collaborazionismo furono arrestati o fucilati con esecuzioni sommarie. Carmine continuò con azioni di mero banditismo, assalendo viandanti, compiendo depredazioni, ricatti, sequestri, omicidi di personalità, suddividendo i suoi uomini in piccole bande che si sarebbero riunite in caso di grandi scontri. La tattica li rese imprendibili, favoriti dal territorio boschivo e impervio. Anche se i tentativi erano ritenuti vani, i realisti borbonici non abbandonarono Crocco, perché lo Stato Italiano era distratto dal completamento dello stesso. Le sue scorrerie si spinsero sino ad Avellino, Campobasso, Foggia, Bari, Matera, Ginosa, Castellaneta, Lecce, collaborando in diverse occasioni con altri capobriganti come Angelantonio Masini, Eustachio Fasano e il pugliese Sergente Romano, il quale gli propose di unire le forze e muoversi su Brindisi, dove agiva il brigante Pizzichicchio, per occupare i territori del barese e innalzare la bandiera borbonica. Ma, Crocco, per le precedenti esperienze negative, lasciò cadere la proposta.

Nel marzo 1863, le bande di Crocco comandate da Teodoro Gioseffi, Sacchetiello Coppa, Malacarne, Caruso e Ninco Nanco, tesero un’imboscata a 25 cavalleggeri di Saluzzo, guidati dal capitano Giacomo Bianchi, reduce della guerra di Crimea, uccidendone 20 di loro, incluso il capitano. L’atto fu compiuto in risposta alla fucilazione di alcuni briganti, nei pressi di Rapolla, perpetrato dagli stessi cavalleggeri. Nell’autunno, spinto dalla crescente pressione della coalizione regia e dal graduale abbandono del sostegno popolare, diffuse un invito alla rivolta, cercando di sfruttare il sentimento religioso del volgo.

“Che si aspetta? Non si commuove ancora il cielo, non freme ancora la terra, non straripa il mare al cospetto delle infamie commesse ogni giorno dall’iniquo usurpatore piemontese? Fuori dunque i traditori, fuori i pezzenti, viva il bel regno di Napoli, col suo religioso sovrano, viva il vicario di Cristo, Pio IX e i nostri ardenti fratelli repubblicani.”

Il generale Fontana, con i capitani Borgognini e Corona, organizzarono dei negoziati con i briganti e l’8 settembre 1863, Crocco, Caruso, Coppa e Ninco Nanco furono ospitati in una casa di campagna, nelle vicinanze di Rionero. Durante il banchetto, Crocco assicurò di condurre i suoi 250 uomini alla resa, chiedendo per essi un salvacondotto. Poi, Carmine se ne andò verso Lagopesole, sventolando un tricolore e gridando “Viva Vittorio Emanuele.” Scettico per le promesse e evitare una possibile fucilazione, non fece più ritorno e l’accordo saltò.



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lunes, 1 de noviembre de 2021

Carmine Crocco II



        LXXVII Exposición Individual de Dibujos:     

"Extasis de las Curvas" del 13 al 28 de Noviembre, 

               en la Galeria de Arte, MAXART.




Vita del brigante lucano Carmine Crocco 

Seconda Parte


Per un poco di tempo, vissi felice lavorando il terreno di un certo Don Biagio Lo Vaglio. Alla masseria di questo signore benefico e buono, vi erano numerose famiglie di contadini, le quali, conoscendo le sventure della mia, mi colmarono di gentilezze e di bontà. Il fattore, Marco Consiglio, mi accolse come un figlio. Mi assegnò la quota di terreno numero 85, un paio di buoi, la stalla numero 5, l’aratro, gli strumenti da lavoro. In breve, con la volontà e l’assiduo lavoro, m’impratichii nell’arte dell’agricoltura, dedicandomi a coltivare la mia quota. Nel primo anno il raccolto fu fecondo e il ben di Dio compensò il mio sudore. Fatto il raccolto, pagato il fitto e il pedaggio dei buoi, calcolai che avevo guadagnato due lire al giorno, mentre dall’altro padrone ricevevo 36 centesimi, lavorando il triplo. Io ero felice e mia sorella Rosina, lo era più di me. Da piccola massaia, mi teneva la casa in ordine.

Alla sera, con altre famiglie, ci riunivamo in una stalla, a sentir i racconti dei vecchi. Ricordo un settuagenario, ancora vegeto e robusto che sapendo scarabocchiare il suo nome, voleva passare per scienziato e guai a contrariarlo. Ci parlava dei tempi napoleonici, affermando di aver preso parte alla caduta di Vienna, alla presa di Berlino, alla battaglia di Iena e alla ritirata di Mosca. Raccontando le storie del brigante Vandarelli di Foggia, di Fra Diavolo di Itri, di Talarico e Taccone, quel vecchio ci diceva di essere buoni con la legge, con i superiori e i signori. Di fuggire i cattivi compagni, di fare del bene per godere della libertà e la stima del prossimo, poiché pur essendo poveri, si tira avanti lo stesso e Dio provvede a tutto. Meglio mangiare ghiande cotte sotto la cenere che polli rubati e vale più un carlino lavorato col sudore della fronte che centomila ducati rubati.

Nella masseria di Don Biagio, un mattino del maggio 1847, mentre lavoravo, un giovanotto di famiglia nobile, montato sopra un superbo cavallo e accompagnato da una decina di bracchi, mi passò poco distante. Fermai l’aratro e appoggiato il braccio a tergo, in atto di riposo, fissai quel giovanotto. Un mio compagno di lavoro, vedendomi in quella posizione, mi disse di non perdere tempo a guardare il figlio di quello scellerato di Don Vincenzo, poiché mi poteva capitare qualche sventura, per quanto lui, non era come suo padre. Quel giovane era il figlio dell’assassino di mia madre. Immaginate il mio stato d’animo in quel momento. Quando fu alla mia portata, con voce alterata, esclamai di portare i suoi cani a sé, sperando di provocarlo, per freddarlo con una fucilata. Il giovine smontò da cavallo, chiamò a sé i cani e mi salutò, domandandomi perché gli avevo detto di chiamare i cani e se questi arrecavano danno. Gli spiegai la ragione ed egli si scusò. Dopo essermi presentato, il giovane montò a cavallo e partì al galoppo.

Verso sera venne da me il massaro di pecore Vito De Feo, pregandomi di favorire dal signorino Ferdinandino, poiché voleva parlarmi. Fui cortesemente ricevuto con un bicchierino di rosolio, dei biscotti di Francia, un sigaro Avana e invitato a sedere su una comoda poltrona. Don Ferdinando parlò delle mie disgrazie famigliari, facendomi diverse domande e io gli presentai un manoscritto, nel quale era narrata la storia delle sventure. Il signorino lesse e senza dimostrarsi contrariato, mi chiese della provocazione del mattino. Io gli risposi che se avesse usato il frustino, come soleva fare suo padre, gli avrei sparato. Il signorino disse che le colpe dei padri non dovevano cadere sui figli. Mi disse che era disposto a soccorrere tutte le vittime di suo padre e anche la mia famiglia, offrendomi un posto di fattore in una sua masseria. Ringraziai accettando la proposta di fitto, di tre tumoli di terra, con i quali speravo di guadagnare i duecento scudi, necessari per esimermi dal servizio militare. Il signorino voleva offrirmi la somma, ma rifiutai, dicendo che avrei accettato quella che mi mancava, al momento della chiamata alle armi. Ma il destino mi era contrario. Il giovane, essendosi immischiato nei moti di Napoli, del 15 maggio 1848, fu trucidato dagli svizzeri mercenari, sotto il palazzo del Duca di Gravina. Quindi fui costretto a partire militare per Ferdinando II, il 19 marzo 1849. Arrivai a Napoli il 26 dello stesso mese, annesso al I reggimento d’artiglieria. Poi, il 24 giugno, m’inviarono nella compagnia di Palermo.

Il servizio militare non mi pareva pesante. Quello che non sopportavo, era vedere bastonare i miei compagni, per qualche mancanza. Sulle prime piangevo, quando pensavo al paese, agli amici e alla fidanzata che si scordò di me, sposando un altro che poi io le tolsi per farlo brigante, ma poi, mi abituai e fui un ottimo soldato. Il 16 dicembre 1851, da Palermo, con mio sommo piacere, poiché più vicino ai miei cari, mi trasferirono a Gaeta.

Mia sorella aveva 18 anni. Era di statura giusta, snella, bionda, occhi neri, viso tondo, petto largo e gonfio. La poveretta senza padre e senza madre, separata dal fratello soldato, campava lavorando 14 ore al giorno ed era felice nella sua miseria. Carattere fiero, ma indole amorosa, non era rimasta indifferente alle pretese d’amore di un suo coetaneo. Ma un giorno, una donna infame, una mezzana chiamata Rosa, con ipocrisia e falsa affezione, cercò d’insinuarsi nel suo animo, proponendogli il turpe mercato con un certo Don Peppino. In risposta ebbe una rasoiata in viso, equo compenso all’iniquo mestiere. La sfregiata nascose la sua ferita e mia sorella si nascose in casa di parenti. Quando ricevetti la notizia, lascio considerare quale fu il mio stato d’animo e quale tempesta agitò il mio cuore. Un disonesto ci aveva trascinati nella miseria e alla disperazione, un altro della stessa specie, voleva toglierci l’onore e la reputazione. Non potendo più tollerare tanta iniquità, pensai di reagire. Dopo aver sistemato una faccenda d’onore con il sangue e aver disertato, giunsi da mia sorella, a Rionero. A notte alta, bussai alla porta. Quando mia sorella seppe che dietro la porta c’ero io, mi implorò di fuggire poiché la notizia del delitto era giunta a loro. In quel momento ebbi paura, abbracciai e baciai la mia diletta sorella, le consigliai di mantenersi onesta e uscii sulla strada.

Don Peppino Carli, il bellimbusto che aveva mercanteggiato l’onore di mia sorella, frequentava un circolo, dove ogni sera si giocava d’azzardo. In un angolo oscuro, presso la porta di casa sua, attesi la vittima. Un colpo di pugnale punì l’audacia di quel libertino. Compiuta la vendetta, mi diedi alla macchia, dove in breve ebbi a compagni di mestiere, altri tre individui, anch’essi ricercati dalla giustizia. Nascosti nel più fitto delle boscaglie, aggredivamo chi capitava, rubando i denari e i cavalli.

Carmine Crocco fu arrestato il 13 ottobre 1855, condannato a 19 anni di reclusione e rinchiuso nel carcere di Brindisi. Poi, il 13 dicembre 1859, evase, nascondendosi tra i boschi di Monticchio e Lagopesole. Carmine seppe tramite notabili della zona che Camillo Boldoni, membro del comitato insurrezionale lucano, concedeva la grazia ai soldati disertori che avessero appoggiato la campagna militare di Giuseppe Garibaldi, nella spedizione dei Mille. Per la sospirata grazia, Carmine aderì ai moti del 1860, unendosi all’esercito garibaldino sino al 17 agosto del 1860, quando Garibaldi entrò in Napoli. Carmine, con scrupolo e dedizione, aveva combattuto da sottufficiale a Santa Maria Capua Vetere e nella celebre battaglia del Volturno. Cinto dal tricolore, tornato a casa vittorioso e fiducioso d’ottenere quanto gli era stato promesso, si recò dal governatore di Potenza, Giacinto Albini, il quale lo rassicurò che avrebbe ricevuto la grazia. Ma, Crocco non ricevette nulla e sulla sua testa gravò anche un mandato di cattura e la condanna per il sequestro del capitano della Guardia Nazionale di Ripacandida, Michele Anastasia, compiuto con l’aiuto di Vincenzo Mastronardi, prima del suo arruolamento. Crocco tentò la fuga, ma fu sorpreso a Cerignola e nuovamente incarcerato.

Il popolo lucano, afflitto dalla miseria e dai continui aumenti dei prezzi sui beni di prima necessità, iniziò a rivoltarsi contro il neonato Stato Italiano, poiché con il cambio dai Borboni ai Savoia, non avendo avuto alcun beneficio, mentre la classe borghese, in passato fedele ai Borbone, conservò i privilegi, appoggiando la causa risorgimentale. L’acredine del popolo aumentò per la mancata redistribuzione delle terre, per l’aggravio delle tasse, per il servizio militare obbligatorio e fucilazione dei renitenti, in un regime che puniva anche il reato d’opinione. Una popolana di Melfi, Maria Teresa Capogrossi, mentre lavava i panni con altre lavandaie, fu arrestata per aver proferito elogi nei confronti di Francesco II e denigrato il nuovo governo. Per sollecitare la quotizzazione demaniale, si scatenarono ribellioni contadine che furono represse, poiché giudicate reazionarie dal Governo Prodittatoriale Lucano. I membri dei comitati filoborbonici, intenzionati a ripristinare il vecchio regime, sfruttando la rabbia dei contadini, videro in Carmine Crocco, la persona ideale per guidare la rivolta. Ma, Carmine era detenuto nel carcere di Cerignola, in attesa di essere trasferito nel bagno penale di Brindisi. Così, Carmine fu fatto evadere dall’influente famiglia Fortunato, parenti del futuro grande meridionalista, Giustino Fortunato. 

Per le promesse non mantenute, Carmine accettò il ruolo di capo dell’insurrezione contro lo Stato Italiano appena unificato, ricevendo un solido supporto di uomini, armi e soldi, dai Borboni di Francesco II, ex re delle Due Sicilie, subentrato alla morte del padre Ferdinando II. Con il sostegno da parte del Clero locale e di potenti famiglie legate ai borbonici, come i Fortunato e gli Aquilecchia di Melfi, Crocco assunse il comando di mille e duecento uomini, composti da ribelli, bistrattati ed ex militari borbonici, speranzosi di un futuro migliore. Al comando di quella armata, tra cui spiccavano i luogotenenti di Ninco Nanco, Giuseppe Caruso, Caporal Teodoro, Giovanni Coppa Fortunato, Crocco sconvolse molti centri abitati, risultando un pericolo per il giovane Stato Italiano. Nel periodo di Pasqua del 1861, nel giro di dieci giorni, occupò la zona del Vulture. Nei territori conquistati, dichiarava decaduta l'autorità sabauda, ordinava l’esposizione degli stemmi di Francesco II, istituiva una giunta provvisoria, facendo intonare il Te Deum, antico inno cristiano. Nei sanguinari attacchi, la classe borghese veniva ricattata o uccisa e le loro proprietà depredate, ma nella maggior parte dei casi veniva accolto bene. Carmine era il terrore dei proprietari terrieri, i quali, con una richiesta di denaro, vitto e armi, scritto su dei biglietti, dovevano cedere alle richieste.

IL 7 aprile del 1861, Carmine occupó il castello di Lagopesole, facendone la sua roccaforte. Il giorno successivo, sconfiggendo la guarnigione della Guardia Nazionale Italiana, del capitano Michele Anastasia che per vendetta fu trucidato, occupò Ripacandida. Il 10 aprile, le truppe di Carmine Crocco entrarono in Venosa, saccheggiandola e mettendo in fuga la Guardia Nazionale, mentre la cittadinanza borghese si rifugiò nel castello. Il popolo accorse entusiasta, indicando loro le case dei borghesi. Durante l’occupazione di Venosa, fu assassinato Francesco Saverio Nitti, medico, ex carbonaro, nonno dell’omonimo futuro statista e la sua abitazione fu razziata. Fu poi la volta di Lavello, in cui Crocco fece istituire un tribunale che giudicò 27 liberali, filo savoiardi. Le casse comunali apportarono ai ribelli 7.000 ducati, ma, davanti alla supplica del cassiere comunale, di lasciare il denaro per i poveri, Crocco ne prese solo 500. Il 15 aprile, Crocco fu accolto trionfalmente a Melfi, dove il parroco Pasquale Ruggiero fu ucciso e mutilato. L’occupazione di Melfi destò preoccupazione da parte del governo Italiano, tanto che anche Garibaldi fu informato dell’accaduto e il fatto discusso in Parlamento. Il 16 aprile tentò di prendere Rionero, suo paese natale, ma fu respinto dagli abitanti, guidati dalle famiglie Brienza, Grieco e D’Andrea. Dopo la sconfitta di San Fele, il 10 agosto, con il supporto popolare, ottenne una vittoria a Ruvo del Monte, trucidando una decina di notabili, ma abbandonò il paese incalzato dai regolari, comandati dal maggiore Guardì. 

Con l'arrivo dei rinforzi piemontesi da Potenza, Bari, e Foggia, Crocco fu costretto a spostarsi verso Avellino, occupando Monteverde, Calitri, Aquilonia, Conza e Sant’Angelo dei Lombardi. Per aver collaborato con gli invasori, Ruvo fu punita con la fucilazione di numerosi abitanti. Guardì ordinò al sindaco di rifornire il suo contingente ma, di fronte ad un diniego, motivato con le casse vuote trafugate dai briganti, fu arrestato con altri rappresentanti, per attentato alla sicurezza dello Stato e complicità in brigantaggio. 




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