sábado, 1 de julio de 2023

Romolo Il Visionario I

 


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Romolo Il Visionario


Quegli esseri che abitavano alcune sparute capanne, costruite con il fango, nel mezzo della penisola, tra le anse armoniose di un fiume chiamato già dalle orde limitrofe, Tiber, vivevano pescando nelle sue acque e cacciando nei boschi circostanti, usando oggetti costruiti con sassi scalfiti e ossa di animali. Vivevano in maniera inumana, lavorando duramente la terra per ricavarne cipolle, legumi e formaggi dal bestiame allevato. Cuocevano una sorta di focaccia che ammorbidivano nel latte, facendone l’alimento più economico e diffuso. Si suppone fosse il 21 Aprile del 753 a.C., quando uno di loro scavò quel solco primordiale, sul colle Palatino, per costruirci un villaggio, dopo aver sgozzato il fratello gemello che aveva osato scavalcare tale solco. Il suo nome era Romolo. 

Romolo, Romulusnacque ad Alba Longa il 24 marzo del 771 a.C. e morì a Roma il 5 Luglio del 716 a.C., quindi Romolo, il 21 Aprile del 753 a.C., aveva 18 anni. Di origini divine, suo padre fu il dio Marte e sua madre Rea Silvia, figlia di Numitorere di Alba Longa. La sua consorte fu Ersilia, mentre i suoi figli furono Prima e Avila. Fu Marco Terenzio Varrone a decretare la fatidica data della fondazione di Roma, mentre Plutarco racconta che fu Lucio Taruzio, matematico, astrologo e amico di Marco Terenzio Varrone, a calcolare il giorno in cui i due gemelli nacquero.

Con un aratro di bronzo, trainato da un bue e una vacca, Romolo tracciò un solco che delineava i perimetri del suo insediamento che avrebbe chiamato Roma. Quello era il limite invalicabile. Affinché la nascente cittadina potesse prosperare, dall’Etruria furono convocati dei sapienti, i quali fecero celebrare dei riti religiosi, scavando al centro del perimetro una fossa e infilzandoci primizie d’ogni sorta, per simulare la vita. Poi, la fossa fu ricoperta di terra. Remo, invidioso, criticò le mura da poco alzate, dichiarandole insufficienti alla difesa. Per dimostrarlo, con un sol balzo le superò e il capo mastro, secondo di Romolo, per l’ordine ricevuto, di sistemare chiunque avesse osato oltrepassarle, con un colpo ben assestato sulla capoccia, lo stese al tappeto. Quando Romolo arrivò sulla scena del delitto non poté far altro che constatare il decesso del fratello, aggiungendo: “Sic deinde quicumpue alius transiliet moenia mea.” Cosi morirà chiunque tenterà di scavalcarlo.

In onore del gemello, Romolo indisse i Lemuria, celebrazioni per placare l’anima dei defunti e tenne al suo fianco, per tutta la vita il suo busto, uguale al suo. Poi, si circondò di una guardia speciale di dodici uomini, come gli avvoltoi avvistati, chiamati littori. Erano gli uomini più corpulenti che aveva, i quali armati di fasci, camminavano davanti al re, per incutere timore e rispetto. Dall’evoluta Etruria, copiò il trono e la toga reale.

Romolo fu capo politico, religioso e militare, annettendo a Roma nuovi territori conquistati. Dall’Etrusca Veio, alla Latina Fidene. Come capo religioso controllò le festività e gli dei da onorare. Fu chiamato Romolo Quirino, perché assimilato al dio sabino, Quirino. Scelse cento Patres tra i personaggi più eminenti e i loro discendenti furono chiamati patrizi. Roma fu divisa in due classi, i patrizi e i plebei, in base alle origini nobili delle persone e non in base alla ricchezza. I plebei non avevano diritti politici e l’unico modo per tutelarsi era diventare cliente di un patrizio, fornendogli servizi in cambio di sussistenza e protezione. I patrizi erano in minor numero, ma governavano tramite i senatori che  erano scelti tra di loro.

I romani, sin dal principio, si distinsero tra loro per la Gens, formata da un gruppo di famiglie, ognuna delle quali aveva un patriarca, pater familias. Ogni gens si autogovernava e ogni membro aveva gli stessi diritti e responsabilità degli altri membri. Il Senato, prima chiamato Grande Assemblea, aveva il compito di corroborare l’attività legislativa e tra l’altro nominare il futuro reggente, alla morte del precedente. Il termine senex, senato, voleva dire padri o anziani, poiché all’inizio era formato dai più anziani. Romolo inculcò la disciplina nell’esercito e nelle famiglie, sanzionando anche i casi di violenza tra le mura domestiche.  

Romolo fece spargere la voce che avrebbe accolto chiunque avesse voluto vivere nella sua comunità. Così, giunsero altri reietti della società che dimostrarono buona volontà, impegnandosi a costruirsi un rifugio e una vita migliore. Vagabondi, pastori, manovali, esuli, gente d’ogni risma, ma anche uomini volenterosi e ambiziosi, seguirono Romolo nel progetto di sviluppo del borgo, spingendolo a creare un ordinamento giuridico, per governarli nella giusta maniera, essendo anche uomini rudi e violenti.

Roma stava crescendo e si stava consolidando, ma dopo un inizio soddisfacente, il suo disegno non decollava. Per sviluppare il villaggio, per moltiplicare i sudditi, mancavano le donne. A tanta asperità, mancava la prelibatezza, la delizia, la scintilla della vita. Per invogliare le donne a trasferirsi a Roma e sposare i suoi uomini, Romolo aveva tentato delle alleanze, inviando degli ambasciatori nelle città limitrofe. I loro persuasivi discorsi, incappavano nell’indifferenza altrui. “La fondazione di Roma è stata propiziata dagli dei, quindi l’aspetta un futuro luminoso, scritto dai celesti abitanti dell’Olimpo, per cui nessuno disdegni di mescolare il proprio sangue con quello dei romani.” Ma i delegati, ovunque si recavano, erano cacciati a malo modo, stigmatizzati come pecorai e zoticoni. Alcuni commentavano che avrebbero potuto attingere le loro donne adatte al loro proposito dai bordelli, anche se gli abitanti dei paesi limitrofi, fondamentalmente temevano la nascita di una nuova forza militare ai loro confini. I romani non presero bene quegli insulti e avrebbero voluto arrivare alle mani, ma i più propesero per la calma e l’astuzia.

La fama di semidio di Romolo, era stata calpestata dal fratricidio e nessuno voleva diventare un parente di emarginati. Nessuna donna dei villaggi vicini voleva unirsi a uomini selvaggi e rozzi, mentre Romolo aveva sognato di governare una grande città, ma una stirpe senza donne non poteva proliferare, ritrovandosi a gestire solo un pugno di pastori. Bisognava escogitare uno stratagemma e poiché la necessità acuisce l’ingegno, a Romolo gli balenò l’idea giusta. Impegnando molte risorse, Romolo indisse dei giochi, i Consualia, per celebrare il dio dei raccolti Conso, invitando nel suo territorio i popoli vicini, i quali arrivarono in massa, per la voglia di festeggiare e per la curiosità di vedere a che punto era la nascente città.

Accorsero i Ceninensi, popolo ubicato sulla sponda sinistra del fiume Aniene, dieci chilometri prima del suo sfociare nel Tevere, con il loro re Acrone, figlio di Ercole, generato al suo passaggio nel Lazio. Romolo si recava spesso nel territorio di questo popolo amico, per offrire sacrifici nei templi. Gente d’origine sabina, la cui capitale era Caenina, città oggi scomparsa, nella zona dell’odierno quartiere di Colli Aniene a Roma. Questo popolo fu assorbito quando Romolo sfidò e uccise il loro capo, nel 751 a.C.. Il Senato deliberò che gli abitanti delle città di Antemnae e Caenina, si trasferissero a Roma e il loro territorio inglobato.

Arrivarono i Crustumini, di stirpe latina, situati nell’odierna Settebagni. Oltre il loro territorio si trovavano i Veienti. La loro capitale era Crustumerium, posta a nord di Fidenae e a ovest della città sabina, Corniculum. Poi, molti Crustumini, soprattutto genitori e parenti delle donne rapite, si stabilirono a Roma, dopo che Romolo li sconfisse. Crustumerium fu occupata e nei loro territori furono inviati coloni romani che andarono a occupare i terreni fertili.

Dalla confluenza dell’Aniene con il Tevere, arrivarono gli Antemnati, origine sabina. La loro capitale Antemnae, poi occupata dai romani, si trovava nei pressi dell’odierno monte Antenne. Fu una tra le città che in seguito appoggiarono Porsenna e Tarquinio il Superbo, nel tentativo di riprendersi Roma. Dopo l’annessione a Roma, Antemnae prosperò fino alla fine dell’impero.

Arrivarono in massa anche i Sabini, popolo evoluto sopra ogni altro per la giustizia, l’onestà, l’amore per la patria, la frugalità e il pudore, al punto che a Roma, in seguito, era frequente fingersi sabini per ottenere stima e consensi. Discendevano dagli Spartani, popolo di guerrieri, tanto poderosi che i loro villaggi erano privi di mura di difesa. I Sabini furono una delle più antiche razze d’Italia. La Sabina Tiberina era più ricca ed evoluta, con guerrieri ornati di bracciali e anelli d’oro, mentre la Sabina montuosa di Rieti, Norcai e Amiternum, era più povera, basata sulla pastorizia. Accolti con cortesia, i popoli vicini si resero conto della crescita della città, difesa da mura e costituita con solide abitazioni. Per dare inizio al rapimento, si era stabilito un gesto convenzionale. Romolo si sarebbe dovuto alzare, togliersi il mantello, ripiegarlo e indossarlo di nuovo. I romani, molti dei quali armati di spada, avevano gli occhi fissi su di lui, nell’attesa del segnale stabilito, avendo già adocchiato le loro prede. Al culmine dei festeggiamenti, tra baldorie e schiamazzi, si scatenò il putiferio. Come filmini, i romani rapirono le donne più giovani e si rintanarono nei loro tuguri, con il frutto proibito. Le più belle, destinate ai personaggi più autorevoli, furono condotte nelle loro case dagli uomini più forzuti. Il ratto era riuscito, tra le grida e il dimenarsi delle giovani e forti pulzelle. Alla fine se ne contarono 683.

I familiari delle ragazze, arrivati a Roma disarmati, fuggirono nei loro territori sbigottiti e maledicendo i romani per non aver rispettato i sacri vincoli dell’ospitalità, invocando gli dei, per una meritata punizione. Una ragazza bellissima fu rapita dal servo di tal Talassio, amico di Romolo. Nella fuga, alcuni chiesero al rapinatore chi fosse il fortunato a cui avrebbe consegnato tale bellezza ed egli rispose: “A Talassio, a Talassio.” Il grido fu ripetuto tante volte, da non permettere a nessuno, conoscendo l’importanza di Talassio, di toglierli la preda, portando a compimento l’impresa. Dall’aneddoto, a Roma sorse la consuetudine di prendere in braccio la sposa, all’oltrepassare l’uscio di casa per la prima volta, dopo il matrimonio e gridare: “A Talassio.”   

Quegli uomini dai modi grossolani, avevano le migliori intenzioni verso le donne. Volevano sposarle e formare una famiglia, seguendo la nobile usanza greca. Ma le ragazze si disperavano, disconoscendo la loro sorte. Romolo le radunò e le tranquillizzò, spiegando le ragioni di tale ratto, imponendo ai rapitori delle regole ferree di rispetto nei loro confronti. Le avrebbero sposate sole se consenzienti e condiviso con loro la patria, gli averi e la prole. E così fu. Le donne furono trattate con premura e passione, tanto da conquistarne anche il loro cuore.

Tra le donne rapite, vi era una nobile chiamata Ersilia, non più tanto giovane, la quale acconsentì a sposare Romolo, diventando regina e riferimento per le smarrite fanciulle Sabine, lontane dalla propria famiglia. Le Sabine avevano costumi liberi ed Ersilia dettò ai Romani le condizioni che riguardavano il rispetto. Non avrebbero mai dovuto lavorare per loro, salvo che per filare la lana. Per strada gli uomini avrebbero dovuto cedere loro il passo. Nulla di sconveniente doveva essere riferito a loro o in loro presenza. Nessun uomo poteva mostrarsi nudo al loro cospetto e i loro figli dovevano vestire una veste speciale e un ciondolo d’oro, rendendoli sacri e inviolabili. I romani, vogliosi di crearsi una famiglia, avrebbero accettato qualsiasi regola senza reticenze e i matrimoni si celebrarono in un clima di relativa tranquillità e mai violenza fu praticata sulle donzelle.

Quasi tutte, poco alla volta, si abituavano alla convivenza con quei rozzi pastori, mentre i familiari, nei loro villaggi, rimuginavano la vendetta. I Sabini, il popolo più danneggiato dal ratto, temporeggiavano, mentre gli altri popoli volevano portare subito battaglia e una lezione ai romani. Così, senza organizzazione e tattica preventiva, i Ceninensi per primi, si scagliarono sguaiatamente contro i romani. Romolo schierò un esercito compatto e ben addestrato e in una sola battaglia sbaragliò l’avversario e il loro re, Acrone, fu ucciso in duello da Romolo. Poi, si diresse contro Caenina, la loro città che cadde al primo assalto. Il corpo del re fu condotto a Roma, esposto tra il tripudio della folla e con il bottino di guerra fu costruito un tempio a Giove Feretrio e da quel momento, gli furono offerte le spoglie dei nemici. Io, Romolo, ti offro le armi di un re e consacro il tuo tempio. Questo luogo accoglierà i corpi dei comandanti nemici ammazzati in guerra e i miei successori ripeteranno il mio gesto.” Questa l’origine del primo tempio di Roma. Il gesto di Romolo fu ripetuto solo due volte, nella storia di Roma. Gli abitanti di Caenina furono traferiti a Roma e conferiti della cittadinanza romana. 

Poi fu la volta degli Antemnati, i quali, giunti nel territorio romano, razziarono tutto quello che trovavano. Dato l’allarme, i romani uscirono allo scoperto e affrontarono gli avversari, la cui resistenza durò meno dei precedenti e la loro città fu conquistata. Forte delle sue due prime vittorie, Romolo attaccò anche i Crustumini, annientandoli. Nei territori sottomessi furono inviati dei coloni romani e i familiari delle donne rapite, andarono a vivere a Roma. Poi sarebbe toccato ai Sabini, i più difficili da sconfiggere. Era il 747 a.C. e il loro re, Tito Tazio, senza fretta, studiava nei particolari la maniera per attaccare i romani.

Un giorno capitò tra le grinfie dei sabini, una Vestale, la quale si era spinta fuori Roma, per attingere dell’acqua dalle sorgenti. La Vestale in questione si chiamava Tarpeia, figlia di Spuro Tarpeio, custode della rocca del Campidoglio. Tito Tazio si mostrò gentile, mostrandogli gli ornamenti lussuosi che i Sabini portavano e facendole molte promesse per farla cadere in un tranello. I Romani non possedevano gioielli e la giovanetta allettata da tanto sfarzo, la notte successiva, in cambio di tanti gioielli, avrebbe rubato le chiavi a suo padre e aperto le porte della città. Quando aprì le porte all’invasore, la traditrice fu scaraventata a terra e schiacciata da tutti i soldati che entravano, provocandole la morte. La Vestale fu sepolta presso la rupe Tarpea, ancor oggi esistente, considerato luogo di punizione dei traditori. Dalla cima della rupe venivamo gettati coloro che mentivano, tradivano la patria o rifiutavano di testimoniare duranti i processi.

L’occupazione della rocca del Capidoglio, portò i due eserciti a scontrarsi nella piccola piana acquitrinosa sottostante, li dove sarebbe sorto il Foro. I comandanti delle due fazioni, Merzio Curzio, dalla parte sabina e Ostio Ostilio, dalla parte dei romani, mantennero per una notte e un giorno le posizioni. Poi, stanco d’attendere, Ostilio attaccò, anche se in palese svantaggio. Colpito da una bastonata cadde a terra e ucciso da una lancia nemica. Demoralizzati i romani fuggirono in ritirata sul Palatino, quando Romolo disse: “Giove, è per tuo volere che ho gettato le fondamenta di Roma, qui sul Palatino. Ma la roccaforte è in mano ai Sabini che l’hanno conquistata a tradimento. Da lassù, attraverso la vallata, avanzano verso di noi. Ci uccideranno e Roma sarà distrutta. Tu padre degli dei e degli uomini fa che possiamo respingerli. Libera i romani dalla paura e frena questa vergognosa ritirata. Prometto che costruirò un tempio per ricordare ai posteri che è stato con il tuo aiuto divino che abbiamo salvato la città.” Poi, ordinò ai Romani di tornare a combattere e loro ubbidirono. Intanto Mezio Curzio, giunto sino alle pendici del Palatino gridò: “Li abbiamo sconfitti, ospiti ingannatori e soldati vigliacchi. Ora avete capito la differenza tra rapire donne inermi e combattere contro veri uomini.” Romolo alla testa della sua schiera, si buttò contro Curzio che combatteva a cavallo, sino a metterlo in fuga. Le righe Sabine furono sparpagliate dalla foga dei soldati romani, i quali stavano combattendo con rinnovata vigoria e Merzio fu sbattuto nella vicina palude dal suo stesso cavallo imbizzarrito. I suoi uomini timorosi di perdere il comandante, lasciarono il campo di battaglia e si recarono a liberarlo dalla palude. Poi, ripresero a combattere, ma la situazione si era ribaltata.

Dopo tre anni di scaramucce, le sorti del confronto non erano ancora definite. Il conflitto sarebbe andato avanti all’infinito, se la regina Ersilia non avesse avuto un’idea. Riunite le donne vestite a lutto, irruppero sul campo di battaglia, con i pargoletti concepiti dai romani, implorando di fermarsi. “Se i matrimoni che abbiamo stipulato con i romani non sono a voi graditi, rivolgete la vostra ira contro di noi che siamo la causa della guerra. Meglio morire piuttosto che vivere da orfane o vedove.” Tra gli uomini in combutta cadde un improvviso silenzio. Commossi dal coraggio delle loro donne, decisero di smetterla. I comandanti si riunirono e nel trattare la pace, concordarono addirittura la fusione dei due popoli, con a capo i due sovrani. La inaspettata pace salvò i due eserciti da una lenta e generale morte.




Testo tratto dal libro sull'Impero Romano:"Voci dall'Antica Roma"




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