jueves, 1 de agosto de 2024

Lucio Tarquinio Prisco Il Faccendiere e Servio Tullio l’Opportunista

 




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         Lucio Tarquinio Prisco Il Faccendiere




Lucio Tarquinio Prisco, Lucius Tarquinius Priscus, mori nel 579 a.C.. Sconosciuta è la sua data di nascita. Lucio Tarquinio Prisco è stato il quinto re di Roma per trentotto anni, regnando dal 616 a.C., fino alla morte. Lucio Tarquinio era nato a Tarquinia da madre Etrusca e da padre Greco, nobile e ricco cittadino di Corinto, espulso dalla sua città per motivi politici chiamato Demarato. Riparò a Tarquinia, dove si sposò ed ebbe due figli chiamati Lucumone e Arrunte. Quest’ultimo morì prima del padre, il quale non gli sopravvisse per molto, lasciando tutti i suoi averi al figlio minore Lucumone. Demarato, pur sapendo che sua nuora, la moglie di Arrunte era in dolce attesa, nel testamento non menzionò il futuro nipotino e Lucumone fu l’erede universale. Il pupo quando nacque fu chiamato Egerio, dal latino egere, aver bisogno, infatti sua madre viveva nella miseria, senza il becco d’un quattrino. Lucumone, al contrario, con tutto il ben di dio che il padre gli aveva lasciato, aveva il solo problema di farli fruttare. Lucumone sposò l’altrettanto ricca e nobile Tanaquilla, intelligente, diabolica e assetata di gloria. Orgogliosa e impavida, sapeva anche guidare i carri da corsa. Tanaquilla, dovette fare opera di persuasione per convincere il marito a lasciare Tarquinia e andare a Roma, la nascente metropoli dove ogni razza e provenienza era accettata. Lucumone a Tarquinia non si sentiva realizzato, poiché gli si precludeva ogni carica politica, essendo figlio di uno straniero. Così, con molti carri pieni dei loro beni affrontarono il destino che avrebbe cambiato la storia. “Il mio popolo ha già le sue famiglie dominanti. Qui sarai solo un ricco straniero senza possibilità d’inserimento. Se andiamo a Roma, città aperta e in espansione, otterrai il prestigio a cui aspiri.”

 

Mentre i due stavano per entrare a Roma, nei pressi del Gianicolo, un’aquila scese lenta su Lucumone e gli portò via il copricapo. Si alzò in cielo e subito dopo ridiscendendo lo ripose sulla testa. Il marito si spaventò ritenendolo un segno infausto, ma la moglie Tanaquilla che come tutti gli Etruschi era esperta in auruspicina, interpretò il fatto come una benedizione di Giove, predicendogli un avvenire glorioso. A Roma, per integrarsi prima e meglio, cambiarono i loro nomi in Lucius Tarquinius e Gaia Cecilia. Poi, ebbe l’appellativo di Priscus, per distinguerlo dal Superbo. Era il 631 a.C., quando Lucumone si stabilì  a Roma, spinto da manie di grandezza, con sua moglie, archetipo di cupidigia. Cecilia, alias Tanaquilla, da nobile Etrusca di classe sacerdotale per le sue qualità paranormali conquistò il rispetto dei Romani, diventando una delle donne più influenti dell’Urbe, inserendo anche il marito nella vita sociale e politica.

 

Un giorno, Tanaquilla fu vista da suo marito filare una toga rossa, prerogativa dei regnanti. La donna impegnata a filare, non conferì parola al marito, il quale incuriosito si chiedeva a chi potesse servire una toga rossa. Lucumone, alias Traquinio Prisco, bonaccione, cortese, affabile, capace di slanci d’altruismo anche verso gente del più basso ceto sociale, conquistò la benevolenza del popolo romano. Del suo bel fare ebbe a saperne il re, il quale, affascinato dalla sua personalità lo inserì nella cerchia dei suoi amici più intimi. Poi, ci fu la mossa vincente, l’idea che cambierà la vita del lungimirante Lucius e di sua moglie Tanaquilla, mettendo nelle mani del re Anco Marzio tutti i suoi averi. Oltre che suo miglior amico, divenne anche tutore e consigliere dei suoi figli, diventando per il re, il più stimato di tutti. La gratitudine del re fu così grande che lo adottò anche come figlio maggiore e poiché già in età avanzata, avendo figli troppo piccoli per succedergli, lo fece il suo vero successore.

 

Nel giorno in cui Tarquino doveva declamare un discorso al Senato, come figlio maggiore del deceduto re Anco Marzio, allontanò i suoi piccoli fratellastri nel bosco per una battuta di caccia. In Senato, Lucio cominciò una requisitoria pro domo sua. Per paura che i senatori si stupissero alla proposta della sua candidatura, con un eloquente discorso menzionò che Roma era già stata governata da altri re stranieri prima di lui, come Tito Tazio, sia pure con Romolo, da Numa Pompilio e allo stesso Anco Marzio. Poi, indugiò sull’assimilazione dei sui costumi Romani, inculcati dal defunto re Anco Marzio, suo maestro.

 

“La mia sottomissione e la mia devozione alla persona del re, non sono state seconde a quelle di nessun altro e posso dire, senza timore di smentite che per quanto riguarda la generosità verso il prossimo, solo Anco è stato più magnanimo di me. Se mi offrite la corona, governerò con saggezza. Non sono stato adottato dal re come figlio maggiore?”

 

Il discorso non faceva una grinza tanto che il popolo Romano lo elesse e il senato approvò. Fu così che Lucumone, figlio del greco Demarato, indossò la toga rossa filata dalla moglie Tanaquilla, diventando il quinto re di Roma, con il nome di Tarquinio Prisco. La storia di Roma, sin dall’inizio è piena di Etruschi. Tra i patres ce n’erano molti che erano stati aiutanti di Romolo nel costruire la città. Il rapporto fra i due popoli fu sempre stretto. Il nome Tarquinio, oltre a ricordare Tarquinia, la sua città di provenienza, ci ricorda anche la parola Tarch che in Etrusco significa dominazione.

 

Lucio Tarquinio era un ragazzo ricco e spendaccione, fra gente povera e spilorcia. Aveva studiato matematica, filosofia e geografia, era elegante e diplomatico, in una società d’ignoranti. Delle sue qualità, Floro diceva che riuniva il genio Greco, con le qualità italiche. Le famiglie Etrusche, pur potenti e ricche, erano la minoranza, quindi videro in lui l’uomo del riscatto, dopo due re latini e due sabini. Lucio riuscì a confermare i suoi buoni propositi, consolidando il regno ed estendendo il dominio in tutto il Lazio. Nominò cento nuovi senatori, i quali gli furono devoti. La sua prima vittoria bellica fu contro i Latini, conquistando la città di Apiole, nelle vicinanze di Albano, dalla quale ricavò un bottino cosi cospicuo che indisse i giochi più ricchi che erano mai stati celebrati a Roma. Lo spazio scelto per i festeggiamenti fu quello del Circo Massimo. I senatori e i cavalieri furono collocati in palchi di riguardo, alti tre metri e mezzo, chiamati Fori. La riuscita della festa fu totale, con lottatori arrivati apposta dall’Etruria e gare di equitazione. La festa fu ripetuta ogni anno con il nome di Giochi Romani o Giochi Magni. Dopo il circo, il re concesse ai Romani del terreno per la costruzione di portici e botteghe, decretando la nascita del Foro che divenne il centro nevralgico di Roma. Durante il suo regno dispose numerose altre opere, cambiando l’aspetto dell’Urbe. Lastricò numerose strade, ornò con statue il Circo Massimo, sistemò la cinta muraria, bonificò la zona acquitrinosa tra il Palatino e il Campidoglio con la Cloaca Maxima, una rete fognaria composta di canali a cielo aperto che scaricavano le acque reflue nel Tevere. I quartieri cominciarono a definirsi e le putride capanne furono sostituite con vere a proprie costruzioni, con tetto e finestre. La casa nobiliare romana fu costruita come quella etrusca, con il giardino e la vasca al centro, per ricevere l’acqua piovana e le colonne attorno. Le stanze da letto erano al piano superiore. Fu usato il triclinio e le case si arricchirono di mobilio e di suppellettili.

 

Tarquinio Prisco dette anche sembianze agli dei, costruendo statue e templi a loro dedicati, poiché sino ad allora erano spiriti con fattezze indefinite. Costruì un tempio dedicato a Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, rappresentato con fattezze umane, dalla virilità e forza superiore che con Giunone e Minerva, costituiva la nuova triade capitolina, sostituendo quella arcaica composta da Giove, Quirino e Marte. Dall’Etruria arrivarono molti artigiani che insegnarono vari mestiere ad apprendisti, migliorando la qualità di vita degli abitanti. Con le vittorie militari, nella società romana furono inseriti gli schiavi. Vanitosamente si fece costruire una reggia secondo i canoni Etruschi, con trono, scettro in mano e un elmo sulla capoccia. Tarquinio Prisco rimase sul trono per trentotto anni, quando per mano di un figlio di Anco Marzio fu assassinato. Dopo di lui la corona passò al figlio e poi al nipote, creando la dinastia dei Tarquini.

 

Gli Etruschi celebravano la morte di un nobile con lauti banchetti e spettacoli che duravano una settimana. La religione sabina, pelasgica, marsicana e altre, fecero posto a quella Greca, Etrusca e italica. Eliminò i riti religiosi praticati nelle case gentilizie, per trasferirli in templi pubblici. Molti templi Latini furono distrutti e in un Pantheon furono onorati sessanta culti, chiamato anche la stanza degli dei. Oltre alla religione cambiarono la moda e i costumi e dall’alto della loro cultura, Etruschi e Greci istruivano i giovani.

 

Il primo trionfo fu celebrato durante il regno di Tarquinio Prisco. Guerreggiò contro la Lega Latina e i Sabini stanziati fra Tevere e Aniene, per ottenere il controllo delle vie commerciali. Alle città che si arrendevano senza combattere gli veniva concessa la cittadinanza Romana, mentre quelle che si opponevano venivano saccheggiate e i cittadini fatti schiavi. Le popolazioni di Nomento, Fidene, Apiolae, Collazia, Corniculo ed altre furono deportate a Roma.

 

Tarquinio fermò la fortificazione delle mura, per un’improvvisa guerra scatenata dai Sabini che avevano oltrepassato il fiume Aniene. L’esercito Romano si schierò nella pianura adiacente per affrontarli, ma lo scontro non decretò vincitori. Durate la battaglia, avendo notato uno scarso apporto della cavalleria, Tarquino ebbe l’idea di aumentare le centurie e chiamarle con il proprio nome, oltre a quelle indette da Romolo, dei Ramnensi, Tiziensi e Luceri. L’Augure Atto Navio gli ricordò che per istituirli, Romolo chiese il consenso degli Dei. Egli avrebbe dovuto fare altrettanto, interpretando il volo degli uccelli. Il re stizzito chiese ad Atto: “Tu che sei un indovino, chiedi ai tuoi uccelli se è possibile realizzare quello che sto pensando in questo momento?” Atto si mise a osservare il cielo e dopo aver visto svolazzare degli stormi, senza esitare afferrò il pugnale del re e dopo aver sferrato un colpo magistrale, spaccò in due un macigno. Era quello che il re stava pensando. Tarquinio raddoppiò il numero dei cavalieri per centuria, portandoli a milleottocento, ma non quello delle centurie di cavalleria che restarono tre. Da quel momento gli Auguri acquisirono una tale reputazione che a Roma non si muoveva foglia senza il loro parere. Nessuna iniziativa partiva senza il loro bene placido e quello degli uccelli, s’intende. Atto Navio non morì come un uomo qualunque, ma scomparve nel nulla com’era accaduto a Romolo. L’amore che il popolo sentiva per lui e per le sue doti divinatorie gli valsero una statua di bronzo nel Foro, con la testa velata, la prima a Roma per un mortale. Atto Navio è stato l’augure più esperto e apprezzato della Roma antica.

 

Dopo aver rinvigorito la cavalleria, la battaglia contro i Sabini riprese. Un gruppo di audaci gettò nel fiume Aniene una grande quantità di legna e fascine. La massa non a contatto con l’acqua, bruciando e sospinto dalla corrente impattò con il ponte di legno costruito dai Sabini per entrare in territorio Romano, distruggendo il ponte e le barche. I Sabini entrarono in panico, facilitando la carneficina da parte dei Romani. Tarquinio inviò a Roma i prigionieri per recarsi in Sabina e concludere la faccenda. I Sabini rimasti organizzarono un’ultima stregua resistenza, ma alla fine si arresero. Ai Romani andò il territorio della città di Collazia e a governare l’agglomerato fu inviato il nipote di Tarquinio, Egerio, figlio del fratello Arunte. L’anno dopo Tarquinio riuscì a sconfiggere definitivamente i Latini Prischi. Furono conquistate le città di Corniculum, nei pressi di Montecelio. Ficulea Antica, tra la Nomentana e la Tiburtina. Camerium, a nordest di Roma. Nomentum, Mentana. Crustumerium, Settebagni. Medullia, Sant’Angelo Romano. Ameriola, Castelchiodato.

 

Nel Palazzo di Tarquinio Prisco viveva una serva chiamata Ocresia, la quale per il suo portamento regale era l’ancella favorita della regina Gaia Cecilia, alias Tanaquilla. Un giorno, recatasi al focolare dei Lari domestici, gli spiriti degli antenati protettori della casa e della famiglia, al suo cospetto la fiamma si ravvivò a dismisura facendo intravedere tra le fiamme l’immagine di un dio e una regina. Tanaquilla le disse di vestirsi come una sposa e di chiudersi nella sua stanza. Quella notte Ocrisia fu visitata da un dio e rimase incinta, dando poi, alla luce un bambino chiamato Servio Tullio, futuro re di Roma. Tanaquilla, nei mesi successivi si rese conto che la donna era in stato interessante. Se concepito in quella notte, il figlio della donna non poteva che essere figlio del dio Vulcano. Tanaquilla non parlò con Ocresia, ma con il marito insistette per adottare quel bimbo che aveva un futuro magnifico. Infatti, vedendo crescere il bambino, anche il re si rese conto che non era un tipo normale, anche se il bimbo fu chiamato Servio, generato da una serva. Una notte mentre il bimbo dormiva, sulla testa si attizzò una fiamma, confermando le sue origini divine. Il bambino crebbe nella corte rispettato da tutti e quando fu l’ora di prendere moglie, il sovrano su consiglio della moglie gli diede in sposa sua figlia Tarquinia.

 

Durante i suoi anni di regno, Tarquinio non aveva concesso nulla ai figli di Anco Marzio, i quali, al momento della sua incoronazione erano ancora dei bambini, ma nulla faceva pensare che quei marmocchi spodestati, uomini da un pezzo, stessero tramando contro di lui. Tarquinio, secondo il parere dei due aspiranti al trono, non aveva diritto a governare perché di origini Greche. In più, i due presagivano che dopo la morte di Tarquinio, il governo sarebbe toccato a Servio Tullio, il più amato dalla corte. I due non si davano pace che sul trono di Roma, nata per volere degli Dei, sedesse uno con tali ascendenti. Un vero disonore per i Romani. Tutta l’acredine accumulata in anni di silenzio avrebbe dovuto avere uno sfogo. Dovevano indirizzare la violenza sul re, poiché nel caso in cui avessero liquidato Servio, il re li avrebbe puniti e avrebbe fatto sposare sua figlia con un altro prescelto. Così, i due figli di Anco Marzio incaricarono due pastori tra i più nerboruti e rozzi, i quali muniti dei loro attrezzi di lavoro, accetta, coltello e bastone, avevano il compito di litigare davanti al Palazzo Reale. Dopo che le guardie intervennero, i due zotici pretesero la presenza del sovrano per dirimere la questione. Tarquinio, incuriosito, li fece entrare, ma fu subito fulminato da un colpo d’accetta sul capo sferrato da uno dei due pastori, i quali, rapidamente si dileguarono. Tarquinio fu adagiato sul letto agonizzante, mentre i Littori cercavano di individuare i due malavitosi. Tanaquilla ordinò di chiudere le porte del palazzo, allontanando dalla stanza i testimoni oculari del delitto, mentre una folla di persone faceva capannello in piazza. Ordinò alla servitù di portare il necessario per medicare la ferita, facendo pensare che il re potesse riprendersi, mentre il re era morto.

 

La regina chiamò Servio e gli fece giurare che avrebbe vendicato la morte del sovrano. “Servio, il regno è tuo. Affidati agli dei che tempo fa ti hanno avviato alla gloria. Non ti preoccupare, anche noi eravamo stranieri eppure siamo saliti al trono di Roma.” Poi, alla folla radunata sotto il palazzo disse di stare calmi perché il re aveva ripreso conoscenza e la ferita era stata medicata. Poi, disse che il re invitava il popolo a seguire le disposizioni di Servio, in attesa della sua guarigione. Per qualche tempo la regina occultò la morte del re, dando il tempo a Servio Tullio di accomodarsi sul trono. Tempo dopo, con una delle migliori sceneggiate che la storia ricordi, nella reggia echeggiarono i pianti più strazianti e disperati di tutti i tempi che annunciavano la morte del sovrano. Intanto Servio Tullio aveva già saldamente conquistato il trono e aveva una scorta personale a difenderlo. Era il 578 a.C. e Servio Tullio fu il primo re a essere eletto senza il consenso popolare, ma con l’assenso del senato. I figli di Anco Marzio che piangevano la mancata ascesa al trono, sconcertati per lo sviluppo della vicenda, furono esiliati nel vicino popolo dei Volsci.

 

 

 




 

 

 

Servio Tullio L’Opportunista

 

 

Servio Tullio, Servius Tullius, fu il sesto re di Roma, regnando dal 578 a.C., sino alla sua morte, nel 539 a.C.. Si disconosce la sua data di nascita. Di padre ignoto e figlio di una schiava prigioniera di guerra di nobili origini, deve la sua fortuna a Tanaquilla, colta e ambiziosa moglie del re Tarquinio Prisco. Alla morte del marito, Tanaquilla o Gaia Cecilia lo fece re con l’inganno, ma con tanta abilità da sembrare legittimo. Il sesto re di Roma saliva al trono senza il consenso del popolo e col patto di cedere la carica al primogenito orfano di Tarquinio, non appena questi avesse raggiunto la maggiore età. Ma, dimentico della promessa fatta a Tanaquilla, Servio regnò con saggezza e lungimiranza per quarantatré anni, ma la promessa non mantenuta scatenò la rabbia di Tarquinio, poi detto il Superbo, il quale alla fine seppe vendicarsi.  

 

Servio Tullio per ingraziarsi il popolo fece numerose riforme sociali a loro favore. Fece distribuire le terre conquistate in guerra tra i ceti poveri, alimentando la voglia di combattere del popolo. Censì il popolo e i loro beni per tassare tutti equamente e riordinò la leva militare. La plebe fu molto contenta dei suoi emendamenti, ma i patrizi mugugnavano e nell’ombra tramavano contro di lui. Così, Servio Tullio radunò il popolo nella valle del Foro, minacciando d’abbandonare il potere. La strategia ebbe i suoi frutti, poiché il popolo lo acclamò e la faccenda fu accantonata. Dopo l’acclamazione a re, nessuno poteva rivendicare il trono di Servio Tullio.

 

Quando Tarquinio Prisco conquistò Corniculum, Ocrisia, moglie incinta del padre di Servio Tullio, re della cittadina e morto in battaglia, fu fatta schiava e concubina. Ocrisia aveva un corpo giunonico, seni e labbra sensuali, da incantare mortali e dei. L’affidò a sua moglie Tanaquilla, la quale resosi conto della sua regalità, le concesse vari privilegi. Ocrisia per dare un futuro migliore a suo figlio Servio, cosi chiamato per essere nato in servitù, lo mise sotto la protezione di Tanaquilla che lo prese a ben volere. Una notte, mentre a Palazzo tutti dormivano, si alzarono delle grida così forti da svegliare anche i sovrani. Il bambino, mentre dormiva era stato visto con la testa avvolta dalle fiamme. Quando un servo stava per spegnere l’incendio con dell’acqua, giunse la regina Tanaquilla che gli intimò di fermarsi. Poi, il bimbo si svegliò e le fiamme scomparvero. Gaia Cecilia disse al marito che quell’infante avrebbe avuto un futuro radioso e sarebbe stato il puntello della loro vecchiaia, facendolo il prediletto del palazzo. Fu educato al meglio e nel crescere si mostrava simpatico e ingegnoso, tanto che il re gli concesse la mano di sua figlia Tarquinia.  

 

Servio Tullio fece costruire le mura chiamate Serviane che furono le prime vere mura della città, anche ampliando e rafforzando le vecchie mura in pietra costruite da Tarquinio Prisco. Queste mura costruite con grossi blocchi tufacei, a tratti ancora visibili nel centro storico di Roma, furono usate sino alla fine dell’impero Romano, quando sotto Aureliano furono ampliate e migliorate, anche se nel 390 a.C., furono violate da Brenno, nel saccheggio dell’Urbe. Dopo che i barbari lasciarono la città, le mura furono riassettate. Roma, ora era difesa da alte e spesse mura, situate sopra il ciglio dei colli e rupi scoscese, mentre dall’altra parte della città c’era il Tevere a fare da baluardo a possibili incursioni nemiche. L’altezza media si aggirava attorno ai dieci metri, mentre di larghezza arrivava a quattro metri. Le porte erano diciassette. I luoghi ritenuti meno sicuri erano stati protetti con fossati larghi più di cento piedi e profondi trenta. Restaurate più volte nei secoli, in epoca augustea il materiale fu usato per altre costruzioni, non avendo più alcun senso difendere la città.

 


Servio aggiunse alla città il colle Viminale e l’Esquilino e quella parte del Quirinale che non era stata rinchiusa nel primo recinto di Numa, completando la lista dei sette colli. Palatino, Capitolino, Aventino, Quirinale, Viminale, Esquilino e Celio. Escluso dalla lista è il Gianicolo, considerato solo una fortezza. Servio Tullio dovette guerreggiare contro le città etrusche di Veio, Caere e Tarquinia. La guerra durò venti anni, con esiti alterni, ma alla fine Roma riuscì a vincere, ampliando il suo territorio verso nord. Attorno al 540 a.C., sull’Aventino fu costruito il tempio di Diana e nel Foro Boario, il Tempio di Mater Matuta e il Tempio della Dea Fortuna, per fare di Roma il centro religioso delle popolazioni del Lazio. Servio Tullio era devoto della dea Fors Fortunae, la quale secondo il suo pensare era stata quella che lo aveva protetto e voluto re di Roma. Nel santuario a lei dedicato c’era una statua coperta con un velo che nessuno poteva scoprire e nessuno sapeva chi fosse il personaggio raffigurato, anche se per il popolo c’erano due possibilità. O Servio o la dea Fortuna. 

Servio Tullio suddivise i cittadini in cinque grandi classi sociali e indisse un censimento, verificando che il suo popolo era costituito da 80.000 Romani adulti. Chi più aveva, più tasse pagava. Le divisioni che prima si erano incentrate sulla razza, ora si spostarono sul patrimonio. La razza, la discendenza non contava più. Cessarono i dissidi tra le varie etnie che popolavano Roma e la gente s’accomunava a quelle con lo stesso patrimonio economico. Servio Tullio permise alla gente più umile di poter accedere alle più alte cariche dello Stato e per questo chiamato il re della plebe.

 

I cittadini censiti che risultarono possedere più di 100.000 assi, fecero parte delle ottanta centurie di prima classe; quaranta chiamati seniors e quaranta chiamati iuniors. I seniors avevano il compito di difendere la città, mentre gli iuniors di combattere in battaglia. Ognuno doveva procurarsi l’armatura adeguata alla loro classe che consisteva nell’elmo, scudo rotondo, gambali, corazza, lancia e spada, tutto rigorosamente in metallo. Da questa classe provenivano i fabrum, i quali esclusi dal servizio attivo, provvedevano alla costruzione delle armi. Alla seconda classe appartenevano i cittadini che avevano proprietà dal valore tra 100.000 e 75.000 assi. Con questa classe furono composte venti centurie, dieci di seniors e dieci di iuniors, equipaggiati come la prima classe, tranne la corazza. La terza classe era formata da cittadini con un censo tra 75.000 e 50.000 assi, organizzata in venti centurie, dieci di seniors e dieci di iuniors, i quali possedevano le stesse armi della seconda classe, escluso i gambali. La quarta classe era formata da cittadini con un censo tra 50.000 e 25.000 assi. Questa classe era organizzata come la terza, ma possedevano solo bastone e giavellotto. Hastam et verutum. La quinta classe, la più numerosa, formò trenta centurie e si componeva di uomini con un patrimonio tra 25.000 e 10.000 assi. Questi ultimi erano armati con fionda e pietre. Alla fine c’erano i trombettieri e suonatori di corno. Chi era al di sotto dei 10.000 assi, era esentato dalla leva militare. Poi reclutò dodici centurie di cavalieri attinti dall’aristocrazia, portando il numero totale a diciotto, delle quali tre furono istituite da Romolo e tre da Tarquino Prisco, conservando lo stesso nome. I cavalli acquistati con denaro pubblico erano mantenuti dalla tassa sul celibato delle donne ricche. I ricchi, quindi, non come avveniva prima, pagavano più dei poveri, ma ebbero il privilegio di essere i soli elettori, poiché solo quelli della prima classe e i cavalieri avevano tale diritto. In caso di disaccordi, per dirimere la questione, si dava il voto alla seconda classe e per i trasgressori il re decretò la pena di morte. Per celebrare l’evento davanti all’esercito, si procedette al sacrificio di un toro, una pecora e un maiale, chiamato sacrificio espiatorio di chiusura dell’atto del censo. Fabio Pittore, storico contemporaneo, afferma che quel giorno davanti al re erano schierati ottantamila soldati.

 

Nelle campagne fuori Quire, nacque una vitellina dalle dimensioni eccezionali. Gli indovini predissero che chi l’avesse sacrificata alla Dea Diana avrebbe garantito il dominio della sua città sulle altre. Lo zotico Sabino che nei cui possedimenti c’era stato il lieto evento, arrivò a Roma con l’animale ed entrò nel tempio di Diana per sacrificarla. Il custode sacerdote disse al contadino che per sacrificare l’animale si sarebbe dovuto prima purificare nelle acque del Tevere. L’uomo oltre che grossolano, risultò essere anche un credulone, poiché fu alle acque del fiume lasciando l’animale nel tempio. Al ritorno vide che la vitella era stata immolata dallo scaltro sacerdote. Questa bravata fu molto apprezzata dal re e dal popolo e le corna della giovenca adornarono il tempio per vari secoli.

 

Servio Tullio dovrà arginare il malcontento dei figli di Tarquinio Prisco, Lucio Tarquino e Arunte, i quali aspiravano al potere che spettava loro di diritto. Ma Servio che non ne voleva sapere di cedere lo scettro, per tenerli buoni ebbe la malaugurata idea di dare loro in spose le sue figlie, Tullia Maggiore e Tullia Minore, avute nel matrimonio con Tarquinia, figlia di Tarquinio Prisco. Tullia Maggiore sposò Lucio, mentre Tullia Minore sposò Arunte. I matrimoni non fecero altro che acuire la situazione già incandescente, soprattutto per parte di Lucio Tarquinio, noto per la sua ambizione sfrenata e una voglia di riscatto nei confronti di Servio Tullio. Le coppie erano in antitesi, poiché Tullia Maggiore e Arunte erano buoni, mentre i loro rispettivi consorti erano diabolicamente affamati di potere.

 

Fremeva la più malvagia delle sorelle, nel vedere il contrasto caratteriale che c’era tra il suo rammollito marito e suo cognato, da lei ritenuto un vero uomo. I due cominciarono a frequentarsi. Similia cum similibus. Il loro piano era eliminare i loro coniugi, per sposarsi e affondare la lama anche nel corpo del re. I due eliminarono prima Arunte e poi Tullia Minore. Nessuno scoprì la congiura e i due convolarono a nozze. A quel punto, Tullia spingeva il marito a recitare l’atto finale. Bisognava eliminare il sovrano, nonché suo padre. Lucio Tarquinio cercò di conquistare i senatori, con regali e promesse e quando sentì che l’ora era giunta si presentò in senato con una banda di gaglioffi armati. Si sedette sullo scranno reale e cominciò a parlare male di Servio Tullio. Servum servaque natu. Servio è nato servo.

 

“Dopo la morte ignobile di mio padre, non ha consentito l’interregno, come da sempre avviene, non ha convocato i Comizi e non ha ottenuto il voto popolare e la ratifica del senato, salendo al trono grazie alle mosse di un’astuta donna. D’umili origini, ha sempre favorito i suoi pari, togliendo le terre a eminenti personaggi, per darle alla plebe. Ha istituito il censo per esporre all’invidia popolare i più abbienti. Ha elargito ai poveri che nulla apportano alla società.”

 

Avvertito, Servio Tullio si recò in senato scortato dai Littori, riuscendo ad ascoltare la fine di quel diffamante discorso. “Cosa dici Tarquinio? Come ti permetti di sedere sul mio trono?” Lucio rispose con molta arroganza che quello era il suo trono, perché una volta fu occupato da suo padre e non poteva spettare a uno schiavo. Lucio Tarquino afferrò Tullio, lo sollevò da terra e lo scaraventò giù per le scale della Curia. Quando Tullio sanguinante si rialzò, fu raggiunto da una gragnola di pugnalate sferrate dagli scagnozzi di Lucio. Tullia Minore, arrivata con un cocchio al Foro, incontrò il marito, il quale la invitò a togliersi di mezzo dal quel putiferio. Tornando a casa, salendo l’Esquilino, il cocchiere inchiodò la biga. In terra giaceva morente, suo padre. Inferocita la ragazza strappò le redini dalle mani del cocchiere e spinse i cavalli sul corpo del padre moribondo, ripetendo l’azione più volte. Alla fine si ritrovò sporca di schizzi di sangue del padre. Il luogo del misfatto fu chiamato Vicus Sceleratus. Era il 539 a.C.. Servio Tullio moriva dopo quarantaquattro anni d’ineguagliabile regno. Egli avrebbe voluto affermare la Repubblica, ma tale privilegio non gli fu concesso.

 


Testo tratto dal libro sull'Impero Romano: 

"Voci dall'Antica Roma"







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