domingo, 1 de diciembre de 2024

Lucio Tarqunio il Superbo

 



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       CXIV Exposición Individual de Fotografías:             "Quinceañeras" del 14 al 29 de Diciembre,                     en la Galeria de Arte, MAXART.









Lucio Tarquinio il Superbo


Lucio Tarquinio il Superbo, Lucius Tarquinius Superbus, morì nel 496 a.C., dopo aver regnato dal 534 al 509 a.C.. Sconosciuta è la sua data di nascita. Figlio di Tarquinio Prisco, fu il settimo e ultimo re di Roma. Le sue due spose furono le due figlie di Servio Tullio. Tullia Maggiore e Tullia Minore, dalla quale ebbe i figli Tito, Arrunte e Sesto. Tarquinio governò con la spregiudicatezza e la crudeltà dei tiranni, tanto che i Romani lo apostrofarono il Superbo. Per la lungimiranza di Servio Tullo, in città si respirava aria di democrazia, ma il nuovo re cambiò le regole. Chi non era con lui, era contro di lui. La sua vita fu tanto violenta che tutti i suoi nemici furono passati per le armi.

La guerra contro Gabi, a venti chilometri da Roma, sulla Via Prenestina, si protraeva senza esito, spingendoli a ricorre all’inganno, espediente poco comune per i Romani, abituati a combattere in campo aperto con lealtà. Abbandonata la pugna, fingendo d’essere interessato a opere ingegneristiche a Roma, Sesto, il più giovane dei suoi tre figli, cercò di farsi accettare tra gli abitanti di Gabi, accampando forti dissapori con il padre. Accolto con giustificata diffidenza, il ragazzo con un racconto verosimile, cercò d’entrare nelle grazie degli abitanti di quella cittadina. “Mio padre è un uomo spietato anche con i suoi figli. Dice che gli procuriamo fastidi e ci vuole eleminare, cosi come ha fatto con i patres. Io sono riuscito a scampare e ho pensato che nessun posto è più sicuro che la città dei suoi nemici. Quanto a voi, al momento propizio attaccherà ancora. Se da voi non c’è posto per un figlio perseguitato da un padre, percorrerò l’intero Lazio, mi rivolgerò agli Equi, ai Volsci, agli Ernici, fino a quando non mi imbatterò in gente disposta a proteggere un figlio dalle torture e dalle crudeltà di un padre. Chi mi accoglierà troverà un uomo determinato a combattere con rabbia il più tirannico dei re e il più prepotente dei popoli.” Con questo convincente discorso, i Gabini lo invitarono a restare e persino ammesso alle riunioni del Gran Consiglio di Gabi. Nelle questioni interne era sempre d’accordo con tutti, mentre quando si parlava di guerra lanciava sempre il suo guanto di sfida a Roma, proponendosi alla guida dell’esercito di Gabi, poiché si sentiva un grande stratega. Conoscendo entrambi gli eserciti, sosteneva di avere in mente un piano infallibile per sconfiggere il suo odiato padre.

Con una fastidiosa guerriglia cominciò a devastare piccoli territori dei Romani. Quelle azioni gli fecero acquistare quella poca fiducia che ancora gli mancava, tanto da essere nominato generale supremo delle forze armate di Gabi. Sesto e le sue truppe ritornavano sempre vincitori, come previsto dal copione, tanto che il giovane era diventato un idolo sempre più osannato dalle truppe. Quando sentì di avere tutta la fiducia, Sesto inviò a Roma un suo galoppino per chiedere lumi al padre sul da farsi. Il re si mostrò riluttante poiché non si fidava del messaggero. Nel giardino del palazzo il re passeggiava silenzioso. Poi, senza fiatare, cominciò a decapitare i fiori che aveva a portata di mano a colpi di spada. Messaggio criptico per il figlio. La staffetta stanca d’attendere senza ricevere risposta, se ne tornò dal suo padrone, raccontando quello che aveva visto e Sesto ci mise del tempo per capire. Il messaggio sottintendeva che bisognava eleminare tutti i loro capi. Alcuni furono esiliati con false accuse, mentre altri furono uccisi segretamente. Alla fine, i Gabini rimasti senza uomini eminenti, si consegnarono spontaneamente ai Romani.

In campo di battaglia Tarquinio fu valoroso e grande stratega. La sua prima guerra fu contro i Volsci, abitanti della zona Pontina. Le loro città erano Velletri, Atina, Frosinone, Sora, Cassino e Anzio capitale. Militarmente all’altezza dei Romani, furono sottomessi solo dopo due secoli di aspre battaglie. Con un esercito più forte e numeroso, Tarquinio riuscì a batterli nella battaglia nei pressi di Suessa Pomezia, ricavandone quattrocento talenti d’oro e d’argento, con i quali edificò sul Campidoglio un tempio agli dei più importanti: Giove, sua moglie Giunone e la figlia Minerva che soppiantavano la vecchia triade composta da Giove, Marte e Quirino. Tarquinio voleva un monumento colossale che potesse durare in eterno. Ma, per realizzare un’opera gigantesca avrebbe dovuto radere al suolo tutto, poiché il Campidoglio era già colmo di templi di tutte le fattezze ed epoche e gli auspici gli ordinarono di conservare il tempio al dio Termine, poiché assicurava stabilità all’Urbe. Durante gli scavi per le fondamenta del tempio, fu trovata una testa di pietra. “Caput humanum integra facie.” Il ritrovamento destò molto scalpore, tanto che furono interpellati gli Aruspici Etruschi, i quali non svelarono l’interpretazione del rinvenimento, giacché c’erano notizie felici per i Romani, ma non per i popoli vicini, dei quali anch’essi facevano parte. Poi, mettendo alle strette il figlio di un aruspice, si svelò l’arcano. Roma sarebbe diventata Caput Mundi, capitale del mondo. Per questo il tempio a Giove fu chiamato anche Capitolino. Per la costruzione del tempio, insieme alla manodopera locale furono chiamati tecnici e operai dall’Etruria e da altri popoli vicini. Poi, per moltiplicare l’odio nei suoi confronti, pensò di non pagare chi avevano trasportato le pietre, mettendo d’accordo per la prima volta i patrizi e i plebei, sul fatto che il re era proprio un delinquente. Spinto dalla profezia e dalle spese per la costruzione del tempio, Tarquinio attaccava briga con i suoi vicini, sconfiggendoli e allargando i suoi territori.

Tarquinio non aveva rivali. Aveva fatto uccidere sua sorella e uno dei suoi figli, per regnare incontrastato. Ma, le sue notti erano costellate di sogni malefici, come quello del serpente che uscendo da una colonna del palazzo lo mordeva a morte. Non soddisfatto degli indovini di corte che interpretarono il sogno come un’avvisaglia di morte tramite una bestia feroce, dopo aver fatto perlustrare il Palazzo e assicuratosi che non ve ne fossero, inviò i suoi figli Tito e Arrunte a Delfi dall’oracolo di Apollo, il più influente e importante della storia antica, accompagnati dal nipote Lucio Giunio, secondo lui una specie di deficiente. Il nipote era il figlio della sorella che aveva fatto uccidere, con il suo primogenito, soprannominato Bruto per la sua presunta imbecillità. Intanto i nefasti presagi aumentavano, poiché un giorno il re vide un avvoltoio rapire degli aquilotti dal loro nido. L’aquila era il simbolo di Roma. Quando i tre arrivarono in Grecia, al tempio di Apollo, dopo aver offerto doni al dio, furono ricevuti dalla Sibilla Delfica. L’oro e i gioielli portati dai due figli del re, furono adeguati alla loro condizione, mentre Bruto regalò tra la derisione dei suoi cugini quello che apparentemente era un misero bastone, ma la sua cavità era colmo d’oro. Dopo che fu formulata la fatidica domanda, su quanto sarebbe durato il regno di Tarquinio, la Sibilla rispose cripticamente che il suo regno sarebbe caduto quando la bestia avrebbe parlato con voce umana. Poi, i ragazzi vollero sapere chi sarebbe stato il suo successore e lei rispose che sarebbe stato colui il quale per primo avesse baciato la madre. Tito e Arrunte, una volta arrivati a Roma, decisero di non dire nulla al terzo fratello Sisto e sfruttare a loro vantaggio quella profezia. La prima cosa che fecero fu quella di gettarsi nelle braccia della madre e baciarla. Bruto, invece, preso in giro dai cugini per una falsa caduta in cui era incorso all’entrata nella città, interpretò in maniera diversa la profezia. Quando per la caduta fu steso al suolo e i due cugini ridevano di lui, Bruto baciò la madre terra. I due figli di Tarquinio riportarono il risultato della loro spedizione e il padre tirò un sospiro di sollievo, poiché era molto improbabile secondo il suo pensare che una bestia parlasse con voce umana. Ma la bestia era Bruto, così catalogato dallo zio. Il ragazzo per anni se n’era stato buono per paura di ritorsioni dello zio Tarquinio, il quale aveva già fatto uccidere sua madre e suo fratello. Se ne stava in disparte aspettando paziente il suo momento. Lui era la bestia e l’uomo da temere.

Un giorno la Sibilla Cumana, la cui fama aveva solcato i mari più lontani, si presentò in incognito al cospetto del Superbo. Vecchia e cadente, con una coperta che le copriva il capo, le spalle e parte del corpo. La Sibilla era la profetessa che captava il pensiero di Apollo, trascrivendolo su foglie di palme, le quali disperse al vento se ne perdeva il significato. La Sibilla gli chiese se volesse comprare i suoi nove libri sacri che aveva con sé, nei quali erano contenute le profezie divine. Quando la sacerdotessa rivelò il prezzo, il re scoppiò in una fragorosa risata e in un gesto eloquente d’allontanamento. A quel punto la Sibilla buttò nel fuoco tre dei suoi nove libri, ripetendo al sovrano la stessa proposta, ma chiedendo la stessa somma di denaro. Il re stizzito e stupito, rifiutò ancora e lei buttò nel fuoco altri tre libri. Poi, la sacerdotessa, con una voce ammiccante, conferì la domanda: “Sei sicuro di non volerli comprare?” La Sibilla, col suo fare, aveva sconcertato Tarquinio, il quale alla fine acconsentì ad acquistare i tre libri rimasti, per l’invariata elevata somma. Dopo questa trattativa, la sacerdotessa non fu mai più vista. I Libri Sibillini furono affidati a due uomini che ebbero il compito di codificarli. Erano i duumviri, i quali, in seguito divennero dieci e furono chiamati decemviri. I Libri Sacri furono custoditi nel tempio di Giove Capitolino, ma andarono perduti in un incendio. Ottaviano Augusto fece trascrivere i pochi testi rimasti, in memoria dei decemviri, nel tempio di Apollo Palatino. Poi, il generale Stilicone decise di bruciarli, per impedire che le profezie riportate mettessero in pericolo il suo governo.

Un giorno Tarquinio convocò i nobili Latini nel bosco dedicato alla Dea Ferentina, nelle vicinanze di Marino, con la scusa di dover trattare con loro importanti incombenze di comune interesse. I Latini, al mattino, si presentarono in gran numero. Ma, per tutta la giornata, di Tarquinio neanche il lezzo. Turno Erdonio di Aricia, spazientito più degli altri, stava sputando sentenze contro il re assente. “Non sono meravigliato se a Roma l’hanno soprannominato il Superbo. Ma si può essere più arroganti di uno che si prende gioco dell’intero popolo Latino? Invitare i capi, in un posto lontano e non arrivare alla riunione da lui convocata? Vuole mettere alla prova la nostra pazienza e poi, costatata la nostra inettitudine, ci sottometterà. Se i Romani gli concedono di governare dopo aver perpetrato orrendi delitti, perché anche noi dovremmo sopportarlo? Ma se i Romani ricevono condanne a morte, esili, confische dei beni, quale speranza abbiamo noi di essere trattati meglio? Date retta a me, troniamocene a casa.” Mentre l’esasperato Erdonio finiva la sua predica e il sole tramontava, Tarquinio apparve ammutolendo la platea. Invitato a spiegare le ragioni del ritardo, si scusò dicendo che era stato occupato a dirimere una diatriba di vitale importanza tra un padre e un figlio. Turno ancora più incazzato di prima, gli rispose che non c’era faccenda più facile da risolvere, poiché un figlio deve ascoltare il padre senza fiatare e le sue scuse erano inadatte. La tarda ora fece slittare il convegno al giorno seguente. Turno fulminò Tarquinio con uno sguardo intimidente e il re poiché non poteva eliminarlo con una delle sue repentine condanne, avvicinò alcuni dei suoi compatrioti contrari alla sua fazione, ai quali disse di tornare di nascosto ad Aricia e introdurre furtivamente pugnali e spade nella casa di Turno. All’alba Tarquino si presentò davanti all’assemblea Latina con una gran notizia, adducendo che il ritardo del giorno prima era da considerarsi miracoloso, giacché Turno quel giorno si sarebbe assicurato il potere eliminando i capi Latini e il re di Roma, in quanto i suoi uomini, con armi in pugno, avrebbero fatto una strage. Per quello Turno era molto arrabbiato per il ritardo del re. Prova delle accuse erano le armi nascoste in casa sua. Dopo un sopralluogo nella casa di Turno e il riscontro della tesi di Tarquinio, Turno fu condannato a morte, sommerso nell’acqua con una cesta di pietre sopra la testa. Tarquinio riconvocò l’assemblea e dopo averli elogiati per come si erano comportati nella faccenda di Turno, disse che avrebbe voluto stipulare un nuovo trattato, poiché il precedente stipulato ai tempi di Tullio Ostilio era troppo vecchio. Tarquinio proponeva d’annettere i loro territori a quelli di Roma, cosi da escludere la devastazione delle loro città, con la sola disposizione che i giovani Latini avrebbero dovuto combattere per Roma.

 

Lo stupro di Lucrezia

Dopo che Tarquinio aveva prosciugato le casse dello Stato per la costruzione del tempio a Giove, stava pensando alla prossima preda per rimpinguarle. La scelta cadde sui Rutuli, popolo antico e ricco, così chiamati per via dei loro capelli rossi. A capo della spedizione fu messo suo figlio Sisto Tarquinio e il nipote Lucio Tarquinio Collatino. Ardea, la capitale, fu presa d’assalto. Per gli scarsi esiti la città fu assediata, costruendo una trincea attorno e aspettando la capitolazione per fame. Nell’attesa, un giorno, nella tenda di Sesto, figlio del Superbo, con suo cugino Tarquinio Collatino e altri nobili, iniziarono a parlare delle virtù delle proprie mogli. Collatino assicurava che la sua Lucrezia fosse insuperabile in fedeltà, ma Sesto lo scherniva, asserendo il contrario. Sesto tracotante come il padre, in breve trasformò le chiacchiere in una seria disputa. Qualis pater, talis filis. Così, decisero di recarsi a Roma e controllare di persona. Dopo una cavalcata di alcune ore i ragazzi arrivarono a Roma. Poiché a pensare male ci si azzecca, i ragazzi trovarono le loro mogli a godere e miagolare in festini erotici. Soltanto Lucrezia, la moglie di Collatino, fu trovata intenta a filare la lana sull’uscio della sua casa. La donna, dopo l’assenso del marito, con gentilezza li invitò a cenare. Poi, tutti insieme partirono per il campo militare. Lucrezia era una donna virtuosa e per non essersi macchiata di nessun misfatto, come le altre facili congiunte, doveva giacere con lui. Questo fu il pensiero che fece quel delinquente di Sesto Tarquinio, non avendo digerito che la moglie di suo cugino non aveva cornificato suo marito e poi, Lucrezia era una stanga di ragazza, bella e nobile. Aveva scuri e lunghi capelli, labbra tumide e sensuali, curve a ripetizione, per la gioia dell’eccitato Sesto.

Dopo qualche giorno, al limite della resistenza ormonale, Sesto lasciò il campo all’insaputa di tutti e con un suo sgherro si recò da Lucrezia. Fu accolto con la solita gentilezza e dopo aver cenato nella sua casa fu ospitato anche per la notte. Poi, a notte inoltrata, con la spada in pugno entrò furtivamente nella stanza di Lucrezia, puntandole l’arma contro il petto. “Non fiatare. Sono Sesto. Una sola parola e ti uccido.” Poi, Sesto cominciò ad adularla e spiegare la sua devozione verso la donna più virtuosa, per entrare nelle sue grazie e sedurla. Senza cavare un ragno dal buco, dopo l’arte della seduzione usò quella delle minacce. Lucrezia rimase impassibile e irremovibile, ma se non accettava di giacere con lui l’avrebbe ammazzata. Poi, gli avrebbe gettato uno schiavo morto ai suoi piedi, dichiarando che era stato testimone di un adulterio, giustificando cosi il suo gesto omicida. Queste erano le minacce di Sesto. La memoria di Lucrezia sarebbe stata macchiata per sempre. Se al contrario avesse accettato, l’avrebbe sposata per farla regina, giacché egli era figlio di un re. Lucrezia cedette al ricatto, serbando voglia di vendetta.

Sesto Tarquinio lasciò la casa di Lucrezia, contento per l’impresa appena realizzata. Il giorno dopo, per pulire l’onta e il suo senso di sporchizia che sentiva addosso, Lucrezia mandò a chiamare il padre e il marito per raccontare l’accaduto, per quel desiderio irrefrenabile di sincerità che aveva dentro. Spurio Lucrezio Tricipitino, il padre e Tarquinio Collatino, il marito, insieme con Lucio Giunio Bruto e Publio Valerio, due amici incontrati nel tragitto, arrivarono al cospetto di Lucrezia che giaceva rannicchiata sul suo letto in lacrime. Dopo ripetute domande, cominciò a parlare. “Nel tuo letto, Collatino, ci sono vestigia della presenza di un altro uomo, ma è stato violato il mio corpo, non la mia anima. Lo proverà la mia morte, ma, giuratemi che punirete l’infame autore dello stupro. Sesto Tarquinio la notte scorsa è venuto qua e ha ricambiato la mia ospitalità, con ostilità. Armato e con la forza ha soddisfatto le sue voglie abusando di me. Se siete veri uomini fate in modo che il sopruso a me fatale sia funesto anche per lui.” Poi, Lucrezia tirò fuori il pugnale che teneva nascosto sotto le vesti e si trafisse il cuore. Bruto estraendo il pugnale, tra le grida di disperazione del padre e del marito, disse: “Su questo sangue, giuro e chiamo voi numi celesti a testimoni che perseguiterò Lucio Tarquinio il Superbo, la sua scellerata moglie e la sua stirpe con tutte le mie forze, con la spada e con il fuoco, sino a ucciderli o a cacciarli da Roma e non permetterò né a loro, né a nessuno, di regnare in futuro.”

I presenti, sbalorditi dall’impeto dimostrato in quel frangente, si chiesero se il vero Bruto fosse quello della sfida lanciata a un sovrano pericoloso e vendicativo o il Bruto degli anni passati, tollerante e remissivo. Dopo che gli altri giurarono sulle parole di Bruto, portarono il corpo di Lucrezia nel Foro di Collazia, spiegando la morte di una giovane e assennata donna Romana. Dopo aver messo alcune guardie all’uscita del Foro, per tema che qualcuno andasse a riferire al re dell’imminente insurrezione, Lucio Giunio Bruto marciò verso Ardea con un manipolo di sostenitori, per destituire il despota. Spurio Lucrezio Tricipitino fu lasciato a Roma per controllare la situazione. Il seme della rivolta oramai era germogliato e tutti, patrizi e plebei, in questa causa uniti, volevano abbattere il tiranno. Dal gesto disperato di Lucrezia, nacque la ribellione dei Romani, comandata da Lucio Giunio Bruto, figlio della sorella del re Tarquino il Superbo, da lui trucidata.

 

Tarquinio il Superbo in esilio

La notizia della ribellione giunse rapidamente alle orecchie del Superbo, poiché aveva costellato di spie la città. La profezia dell’Oracolo di Delfi si era concretata. Trovandosi sul campo di battaglia, con un drappello di soldati a lui fidi, si recò a Roma con l’intensione di reprimere la rivolta. Giunio Bruto, informato dell’imminente arrivo del re, cambiò percorso per non incrociarlo. Quindi, Bruto arrivò nel campo di battaglia di Ardea, accolto come un liberatore, mentre Tarquinio arrivato a Roma fu cacciato a pietrate, dopo venticinque anni di regno. Tarquinio riparò a Cere, in Etruria, con due dei suoi figli, mentre Sesto, lo stupratore di Lucrezia, si rifugiò a Gabi dove fu trucidato. Era il 509 a.C.. Il prefetto di Roma, Spurio Lucrezio Tricipitino, attenendosi alle disposizioni di Servio Tullio, convocò i Comizi Centuriati, i quali elessero due Consoli. Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino. Non domo Tarquinio cercò di riprendersi il potere, ma per Roma irreversibilmente era cominciata l’era della Res Publica, dopo duecentoquarantaquattro anni di monarchia.

L’altro console Lucio Tarquinio Collatino, a causa del nome non era tollerato dalla popolazione. Con la conquistata libertà, dopo il giogo dei Tarquini, il popolo non voleva neanche sentire nominare il loro nome, per paura di riperderla dopo averne assaporato il delicato profumo. Anche Giunio Bruto era figlio di una sorella del Superbo, ma la gente voleva eliminare solo Tarquinio Collatino. Giunio Bruto convocò l’Assemblea e parlò: “Non dobbiamo permettere il restauro della monarchia, senza tralasciare i minimi particolari. Mi dispiace alludere a qualcuno di preciso e non parlerei se non fossi spinto dal mio attaccamento alla patria e alla Repubblica, ma non sono convinto che il popolo Romano si sia appropriato in modo stabile della libertà, poiché la famiglia reale e il suo nome non soltanto sono in città, ma addirittura al governo. Questo ostacola il nostro definitivo affrancamento.” Così dicendo, volse la parola al console, Tarquino Collatino: “Sta a te decidere. Solo un tuo gesto spontaneo può dissipare i nostri timori. Certo non bisogna dimenticare che tutto è cominciato dal martirio di tua moglie Lucrezia e che hai collaborato a cacciare il Superbo. Ma, ora prosegui il tuo nobile comportamento e porta via da Roma il nome del re. Ti concederemo tutti i tuoi beni, anzi, se non sono abbastanza, te ne aggiungeremo altri e vattene da amico, libera la città da questa paura, forse infondata, ma la gente è convinta che soltanto quando il nome dei Tarquini sparirà da Roma, svanirà anche la monarchia.” Lucio Tarquinio Collatino, frastornato, avrebbe voluto replicare, ma attorniato dai senatori più influenti e dal suo ex suocero Spurio Lucrezio Tricipitino, fece le valige e abbattuto, si trasferì a Lavinio. Dopo la sua partenza, il senato approvò una legge che obbligava tutti i Tarquini all’esilio perpetuo. Poi, al suo posto, come secondo console fu scelto Publio Valerio, uno dei primi sostenitori della rivolta contro il Superbo. Durante la tirannide, molti giovani a lui vicino, sia perché amici dei figli o perché figli di amici, avevano perso i passati privilegi. Il re era irascibile e pericoloso, ma dopo un momento di rabbia tornava normale, ricompensando bene chi gli si mostrava amico, mentre la parità tra le classi sociali che la Repubblica aveva stabilito, infastidiva non poco i rampolli.  

Un giorno arrivarono a Roma degli ambasciatori che reclamavano i beni del Superbo, ma la vera intenzione era quella di sondare il terreno per il ritorno del re esiliato. La restituzione dei beni fu discussa per vari giorni in senato. Poi, i senatori accettarono la richiesta per non fornire scusanti a una guerra, anche se significava dargli le risorse economiche per finanziarla. Gli ambasciatori nella permeanza a Roma identificarono i nostalgici della monarchia e consegnarono loro una lettera del Superbo, ai quali prometteva l’impossibile a chi l’avesse aiutato a riprendere il potere.

I fratelli Aquili e i fratelli Vitelli, la cui sorella aveva sposato Giunio Bruto, avevano due figli chiamati Tito e Tiberio, coinvolti in un complotto insieme ad altri giovani esponenti di famiglie importati romane. Insieme sottoscrissero un testo da inviare ai Tarquini, come prova della loro fedeltà, dopo aver bevuto sangue di un uomo sacrificato per l’occasione. Ma, un servo andò a spiattellare tutto ai senatori, i quali scortati dai Littori irruppero nella casa dei Vitelli, acciuffandoli in flagranza di reato. Sequestrata la lettera, furono incarcerati insieme agli ambasciatori, in attesa di giudizio. Poi, pur accusati di un grave reato furono mesi in libertà, mentre la restituzione dei beni del Superbo, già approvato dal senato, furono donati al popolo. Si trattava di terreni, oggi in zona Flaminio, chiamati Campo Marzio e consacrati a Marte, coltivati a farro, pronti per la raccolta, ma poiché era sacrilegio mangiarne il frutto, fu tagliato con lo stelo, messo in ceste di vimini e gettato nel Tevere. In estate, il fiume, come sempre povero di acque, accatastò i cesti nel fondale basso e melmoso, bloccato da altri detriti. Poi, poco alla volta, detriti e canaste di vimini e farro raggrupparono una grande quantità di rifiuti, tanto da formare un isolotto, al quale fu alzato il livello aggiungendo della terra, rendendolo abitabile e pronto a ospitare costruzioni. Era nata l’isola Tiberina. Ma, questa è una leggenda, come tante altre che riguardano soprattutto i primi cinque secoli della storia di Roma.

Poi, i traditori furono condannati a morte, costringendo il Console Lucio Giunio Bruto a far eseguire la condanna contro i propri figli. I Littori legarono i condannati a un palo, in una piazza stracolma di gente. Tanti i giovani implicati nella vicenda, ma tutti guardavano con un occhio i giovani figli, Tito e Tiberio e con l’altro il Console padre, Lucio Giunio Bruto che stava per ordinare la loro esecuzione. Coloro che avevano rinnegato la libertà chiamata Repubblica e rinnegato il padre, la patria, i senatori e il popolo romano, per ripristinate la tirannide dei Tarquini, stavano per scontare la loro condanna.

I traditori subivano potenti sgusciate sino a lacerare la loro pelle. Alcuni svennero e altri morirono sotto i colpi. I sopravvissuti, slegati, furono decapitati con un’ascia. Bruto, inflessibile, ma, teso, mostrava il dolore di un padre per la perdita di due figli. All’ammirevole schiavo, al salvatore della patria, fu concessa la libertà, la cittadinanza Romana e un premio in denaro. Così come Romolo fondò Roma e più di mille anni dopo, un altro Romolo ne decretò la sua fine, così Bruto decretò l’avvento della Repubblica e un altro Bruto, discendente del primo, quasi mezzo millennio dopo, ne decretò la fine, con l’uccisone di Caio Giulio Cesare. Reiterazioni della storia.   

Tarquinio chiese aiuto alle città di Veio e Tarquinia, per scatenare una guerra contro Roma. In caso di vittoria, le città avrebbero avuto in cambio i loro vecchi possedimenti perduti durante le passate guerre contro Roma. La vendetta offuscò le menti di quei popoli che con sommo piacere consegnarono nelle mani di Tarquinio un esercito ben strutturato per fronteggiare Roma. La battaglia ebbe luogo in territorio Romano, nei pressi della Selva Arsia, nel 509 a.C.. Gli schieramenti erano nelle mani dei neo eletti consoli, Publio Valerio Publicola al comando della fanteria e di Lucio Giunio Bruto al comando della cavalleria, contro le forze Etrusche di Tarquinia e Veio, del deposto re di Roma, Tarquinio il Superbo, alla guida della fanteria e di suo figlio Arrunte Tarquinio, al comando della cavalleria.

Le cavallerie si scontrarono per prime. Bruto durante la battaglia, intravide Arrunte Tarquinio, il cugino nemico, colui che sin da piccolo l’aveva deriso. Scagliandosi contro in un duello all’ultimo sangue, entrambi persero la vita. Poi, anche la fanteria si unì alla battaglia e il risultato fu un’ecatombe senza esito. All’arrivo di un violento temporale gli eserciti si ritirarono, ognuno pretendendo la palma della vittoria. L’esercito di Tarquinia costrinse i Romani a ripiegare, mentre i Veienti furono piegati dai Romani. Nella notte, una voce misteriosa proveniente dalla selva echeggiò nei due accampamenti. Era Silvano, il dio della Selva, che diceva: “Gli Etruschi hanno perso undicimila trecento uomini. I Romani uno di meno.” La vittoria era stata assegnata ai Romani, attraverso la voce di un dio. Nulla di più perentorio. Alle prime luci dell’alba, il Console Publio Valerio fece raccogliere i corpi dei caduti e le armi lasciate sul campo di battaglia, entrando a Roma vittorioso su un cocchio a quattro cavalli, per celebrare il primo trionfo della civiltà romana. Era il primo marzo del 509 a.C.. Furono eseguiti dei sacrifici di ringraziamento per gli dei e l’esercito festeggiò tutto il giorno. Il corpo del console Lucio Giunio Bruto, morto gloriosamente in battaglia, fu fatto sfilare per le vie della città, con una corona d’alloro sul capo. Il suo funerale fu il più sfarzoso mai celebrato sino ad allora, ossequiato dal popolo, dai senatori e dal console Publio Valerio in un discorso pubblico. Per aver liberato Roma dalla tirannide e aver dato onorabilità alle donne, Lucio Giunio Bruto fu pianto e omaggiato del lutto cittadino per un anno intero. Ma quella battaglia fu il primo dei vari tentativi che il Superbo attuò per cercare di riconquistare il trono di Roma. 

Solo alcune settimane dopo, l’amore che il popolo aveva riversato sul console vincitore della guerra su Tarquinio, lasciando liberi i romani, andò perso. Il popolo l’accasava di voler riportare la monarchia, poiché non si era affiancato un altro console per il comando dell’Urbe e in più stava edificando una costruzione che assomigliava più a una fortezza inespugnabile che a una residenza, sulla cima della collina Velia. Il popolo temette che volesse proclamarsi re. La Velia era un'altura di 40 metri, propaggine dell'Esquilino, tra il Palatino e l'Oppio. La Velia, il Palatino e il Campidoglio, sovrastano l’area dov’era il Foro e dove Tullia uccise il padre Servio, travolto con un carro trainato da cavalli. Quando Publio Valerio seppe dei sospetti, se ne andò ad abitare in un’umile casa e al posto della sua domus fu costruito un tempio dedicato alla dea Vica Pota. Disgustato per le maldicenze, Lucio Giunio Bruto convocò nel Foro i Comizi. Nel Foro gremito in ogni ordine di posto, Publio Valerio arrivò anticipato dai Littori, i quali su suo ordine, adagiarono i fasci a terra. Il gesto di abbassare i simboli del potere di fronte al popolo, fu molto apprezzato dalla gente. Iniziò lodando il console Bruto, il quale aveva avuto l’onore di liberare Roma dalla schiavitù monarchica ed essere morto in battaglia da eroe, mentre lui, con gli stessi meriti, veniva accusato ingiustamente e associato a traditori come i Vitelli o gli Aquili. “Com’è possibile che riuscite a sporcare anche le persone più oneste? Io, il nemico pubblico numero uno del re, accusato di aspirare al trono? Non capisco perché, anche se dovessi andare ad abitare sulla rocca del Campidoglio, dovrei incutere timore nei miei concittadini? Come può rovinare la mia reputazione, una banalità del genere? È così debole la vostra fiducia nei miei confronti che conta di più dove abito, di chi sono? La casa di Publio Valerio non sarà una minaccia alla vostra libertà. La sposterò più in basso, anzi ai piedi del colle, in modo da abitare sotto di voi.” La paura di tornare sotto le grinfie di un monarca, nei Romani era molto forte. Poi, Valerio propose delle leggi che spazzarono via ogni sospetto, facendolo più popolare di prima, meritandosi l’appellativo di Publicola. Chiunque avesse aspirato alla monarchia sarebbe stato condannato a morte e sarebbe stato spogliato di tutti i suoi beni. Poi, consentì al popolo di eleggere un Console e la scelta ricadde su Spurio Lucrezio Tricipitino. Il tipo, però, tirò le cuoia alcuni giorni dopo, sostituito da Marco Orazio Pulvillo, il quale inaugurò e consacrò il tempio sul Campidoglio dedicato a Giove, appena terminato, mentre Valerio parti per una campagna bellica, contro i soliti Veienti. I parenti di Valerio non accettarono che la cerimonia fosse celebrata da Marco Orazio e al momento culminante, gridarono che un suo figlio fosse morto all’improvviso e quindi inabilitato a celebrare, poiché era un padre in lutto. Ma, il console fermatosi un attimo per ordinare la sua sepoltura, continuò la cerimonia di consacrazione del tempio a Giove. Nel primo anno della Repubblica, Roma aveva già collezionato cinque Consoli, invece dei due previsti: Bruto, morto eroicamente, Collatino, spedito in ostracismo, Valerio, Lucrezio, morto improvvisamente e Orazio.

Tarquinio il Superbo morì in esilio a Cuma, Campania, nel 495 a.C., alla corte del tiranno Aristodemo che lo aveva accolto dopo la disfatta delle forze Latine. La notizia della morte dell’ultimo re di Roma fu accolta con manifestazioni di entusiasmo dal senato e dal popolo. Con il Superbo terminava l’egemonia Etrusca, iniziata con Tarquinio Prisco. Durante il regno dei Tarquini, Roma aveva stretto alleanze con le città Latine, formando una lega della quale era la città egemone, grazie alla fondazione del tempio di Diana sull’Aventino che teneva unito la stirpe. 






Testo tratto dal libro sull'Impero Romano: 

"Voci dall'Antica Roma"






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viernes, 1 de noviembre de 2024

Rafael Trujillo

 

 



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        CXIII Exposición Individual de Fotografías:                 "Niños IV" del 9 al 24 de Noviembre,                           en la Galeria de Arte, MAXART.










Rafael Leónidas Trujillo Molina

Alla fine del XIX secolo, a venti chilometri a ovest da Santo Domingo, Repubblica Dominicana, dopo aver attraversato il fiume Haina, c’era un piccolo centro abitato di 1.500 anime, fondato nel 1822 dal padre Ayala, chiamato San Cristobal.
Rafael Leónidas Trujillo Molina nacque proprio in quel paesino, oggi inglobato nei lunghi tentacoli della popolosa capitale dominicana, il 24 ottobre del 1891.
Nel 1844, il villaggio ebbe un momento di gloria. Gli haitiani erano stati sconfitti e cacciati dalla Repubblica Dominicana e i nativi avevano bisogno di redigere la loro prima Costituzione. Fuori dalle ingerenze della più popolosa capitale, i padri costituenti scelsero quel tranquillo paesino, per stilare quel documento tanto importante, per la nascente repubblica. Quindi, la Costituzione fu promulgata il 6 novembre 1944. San Cristobal si sviluppava con le sue casupole e capanne, lungo una strada principale, chiamata in seguito, Via della Costituzione. Pur senza un tracciato urbano, l’agglomerato aveva poi, alcune stradine parallele e alcune perpendicolari che supponevano un futuro sviluppo demografico. Aveva una chiesa e un parco. Attorno al villaggio pascolava indisturbato il bestiame che forniva parte del sostentamento del borgo. Fuori vi era una folta vegetazione fatta di piante di cacao, banane, mais e altri cespiti. Parte della frutta e verdura che alimentava la capitale, Santo Domingo, proveniva da quelle terre.
José Trujillo Monagas, nonno del dittatore per parte di padre, arrivò a Santo Domingo dalle isole Canarie, originario di Tenerife, come integrante delle truppe spagnole di rinforzo, durante l’annessione della Repubblica Dominicana, alla Spagna e spedito a Las Matas de Farfán, villaggio vicino al confine con Haiti. In loco conobbe la mulatta Silveria Valdez Méndez, con la quale procreò il suo primogenito José Trujillo Valdez, padre di Rafael Leónidas, riconosciuto anagraficamente solo molti anni dopo. José Trujillo Monagas, nonno, fu fatto prigioniero dai patrioti dominicani e traslatato a Jánico, nella Cordillera Central dell’isola caraibica, dov’erano detenuti altri militari spagnoli. Giudicato e condannato a morte dai patrioti, gli fu condonata la pena poiché non essendoci paramedici nell’accampamento, fu giudicato idoneo all’infermeria. Poi, fu trasferito a Cuba e dopo un secondo breve soggiorno nella Repubblica Dominicana, alla fine della guerra si stabilì definitivamente a L’Avana, servendo nel corpo di polizia, per ventitré anni. Nell’eludere l’azione delinquenziale di diversi feroci individui, in varie occasioni ricevette riconoscimenti e decorazioni, sino ad arrivare agli allori delle cronache. Il 9 luglio del 1881, fu nominato Vice Capo delle forze militari della provincia di L’Avana e a fine anno, Capo. 
José Trujillo Monagas, nel 1882, mentre studiava diritto civile e canonico nell’università di L’Avana, laureandosi nel luglio del 1886, fece editare in Barcellona, Spagna, un libro dove descriveva gli eventi di guerra da lui vissuti e tre sonetti, dando mostra di una fine e sensibile anima. Alla fine della guerra cubano-spagnola e conseguente ritirata delle truppe d’occupazione statunitensi, José ebbe il permesso di restare a L’Avana, esercitando la carriera di avvocato e notaio sino alla morte, lasciando prole in loco. 
Attorno al 1880, Silveria Valdez Méndez, gli inviò il figlio José, perché lo potesse riconoscere, dandogli il suo cognome e avviarlo alla vita. Al tempo Silveria era una delle maggiori attiviste e capo regionale del lilismo, per le città del sud della Repubblica Dominicana, Azua, Baní e San Cristóbal. Lilismo viene da Lilis, diminutivo del presidente Hulises Heureaux che governò la Repubblica Dominicana in tre occasioni, nell’ultimo ventennio del XIX secolo.
I genitori del duce, José Trujillo Valdez y Altagracia Julia Molina si sposarono in San Cristobal, il 29 settembre 1887. José Trujillo Valdez, conosciuto come don Pepe, ufficialmente era un piccolo commerciate di bestiame, caffè, tabacco, legno e traverse ferroviarie. In realtà, per sbarcare il lunario della sua numerosa famiglia, dedicò tutti i suoi affanni all’abigeato, considerando che non c’era miglior metodo per arrivare a possedere una mandria di bestiame che rubandolo.
Il padre del grande dittatore era un ladro e anche se molte volte eluse l’azione della giustizia, in altre dovette rispondere delle sue azioni di fronte a un tribunale. Quando suo figlio raggiunse il grandino più alto dello Stato, l’insigne ladro raggiunse i più alti onori. Fu elevato a Senatore. Il suo nome fu affibbiato a una provincia, la sua effige fu collocata nel salone del Congresso Nazionale, a fianco di Duarte, Sánchez e Mella, padri della patria e cose roboanti di questo genere. In suo onore fu istituito il giorno del padre, facendolo passare per simbolo di onestà e virtù. Il suo nome risultava effigiato su strade e piazze, su ponti e canali e alla sua morte ebbe gli onori che si tributavano agli imperatori. Il suo corpo fu inumato nella Cappella degli Immortali, nella Prima Cattedrale del Continente Americano, a fianco di Cristoforo Colombo, poi entrambi trasferiti, il primo nell’immondizia, da parte del popolo dominicano e il secondo nel maestoso mausoleo di Santo Domingo, appositamente costruito, con il contributo di tutti i paesi dell’America Latina.
Il Faro di Colombo, così com’è chiamato, è un monumento di cemento armato a forma di croce, lungo 210 metri e alto 36. Una luce laser, posta nell’estremità superiore del mausoleo, riflette una croce nel firmamento, visibile dallo spazio, sino a 64 chilometri di altezza. Il Faro fu inaugurato in occasione della celebrazione del quinto centenario della scoperta di America, il 6 ottobre del 1992, 6 giorni prima del dovuto.
José Trujillo Valdez era un uomo gradevole e non portava rancore a nessuno, caratteristica che ironicamente avrebbe contraddistinto anche suo figlio Rafael Leonida. Nel complesso, pur non avendo molti difetti, non aveva neanche molti pregi. Quello che lo caratterizzava era la sua licenziosità che trasmise a tutti i suoi figli, causando le ire della sua consorte. D’altronde era facile esserlo, in un paese dove le regole erano una chimera e la libido era ed è alta. Si dedicava a festeggiare con i vicini di casa, ballando e bevendo, unico diletto di quei miseri anfratti. Quindi, le sue esternazioni non causavano il disgusto di nessuno, giacché erano piccoli misfatti, comuni alla stragrande maggioranza delle persone del luogo e del tempo, non disdegnate nemmeno oggigiorno.
Un giorno, seduto nella sala d’attesa del Palazzo Presidenziale, vide che suo figlio gli si avvicinava. Lo accolse con un sorriso, essendone orgoglioso, ma lo stesso lo redarguì dicendo che all’arrivo del Presidente della Repubblica doveva mettersi in piedi, suscitando la sua amarezza. Il tapino morì il primo giugno del 1935, per abuso di droghe atte a mantenere una buona vigoria sessuale, complicato con lo strascico di una influenza mal curata.  
Sua moglie Altagracia Julia Molina Chevalier, madre del dittatore, in seguito nota come Mamá Julia, era la figlia del contadino dominicano Pedro Molina Peña e della maestra Luisa Erciná Chevalier, i cui genitori pur haitiani, erano di discendenza francese. La sua casa e quella della famiglia Trujillo, il despota ci visse sino all’età adulta, era di legno, dipinta di rosso, con il tetto di lamine di zinco, cosi come quasi tutte le case del posto. La casa era abbastanza grande, avendo sei camere da letto, una cucina e una sala. Altagracia, donna sincera, onorabile, buona e semplice, ma dalla mente confusa, svolgeva l’attività di sarta. Dai vicini era considerata una santa, per sopportare le angherie del marito.
Poi, il figlio la convertì in prima dama e il ritratto con suo marito fu riprodotto in un francobollo. Per questa mulatta, anche se le visite del figlio, già Presidente della Repubblica, non durano più di cinque minuti, erano un martirio, ma Rafael ci teneva, per essere catalogato come un figlio modello. Per la sua gloria, Trujillo stabilì che il giorno nazionale della madre, coincidesse con quello della sua nascita. La signora, a cui importavano poco le manovre del figlio, nella sontuosa residenza concessole dallo stesso, doveva sopportare le visite per lei inopportune, di alti militari, di deputati e senatori, di altri manichini imbellettati del regime, di gruppi di donne del Partito Dominicano, con le loro splendide offerte floreali. L’effige della eccelsa matrona e prima dama, Julia Molina, fu stampata in un francobollo celebrativo ordinato da Don Pipí Troncoso, in occasione del giorno della madre, del 1940. 
Rafael Leónidas Trujillo Molina fu un militare, politico e dittatore della Repubblica Dominicana, dal 1930, sino al suo assassinio, del 30 maggio 1961. Esercitò la presidenza della Repubblica dal 1930 al 1938 e dal 1942 al 1952 e governando tramite presidenti fantoccio nei restanti anni. I suoi trentuno anni di governo sono conosciuti come L’Era Trujillo, considerata una delle tirannie più sanguinarie dell’America Latina. Il suo governo si caratterizzò per l’anticomunismo, la repressione dell’opposizione e il culto della sua personalità. I diritti civili furono calpestati e si commisero costanti violazioni. Sottomise il paese in uno stato di panico e rispetto e le condanne a morte erano fatte passare per incidenti. Chiunque non era d’accordo con il suo regime poteva essere incarcerato, torturato e assassinato.
I partitari di Trujillo, mettono in evidenza alcuni lati positivi del suo regime dittatoriale, come la fine del caudillismo, per la instabilità politica che procurava, il ripristino dell’ordine pubblico, lo sviluppo economico del paese. Durante il suo regime, Trujillo fece funzionare all’unisono tutti i ministeri, stabilendo un monopolio su tutto quello che poteva arricchirlo, accumulando un’enorme fortuna, in parte recuperata dai successivi governi semi democratici. Il suo regime causò circa cinquanta mila morti, principalmente dominicani, ma anche haitiani, cubani, colombiani, venezuelani, spagnoli.  
Il caudillismo fu un fenomeno politico sociale, sorto nell’America Latina, nel XIX secolo. Il caudillo veniva nominato dal popolo per acclamazione, per gestire fette di territori. In alcuni casi, il caudillo arrivava alla dittatura di una intera nazione. Quando le masse venivano disilluse dal loro eletto, se ne acclamava un altro.   
Nelle stranezze della storia, Rafael Leónidas Trujillo Molina appare nelle cronache giornalistiche, all’età di cinque anni, affetto dalla sindrome di Croup. Questa malattia, innescata da un’infezione virale acuta delle vie aeree superiori, laringotracheobronchite, gonfia la gola e interferisce con la respirazione. All’epoca, in quelle aree, la patologia colpiva il 15% dei bambini tra i 6 mesi e i 6 anni. La causa principale della sindrome di Croup è la difterite, curata all’epoca con steroidi, mentre oggi, per l’igiene e la vaccinazione, la patologia è svanita.
Nell’edizione del 3 settembre 1897, del Listin Diario, quotidiano nato il primo agosto del 1889, unico informatore locale in quello scorcio di fine XIX secolo, si raccontavano le disavventure sanitarie del piccolo Rafael Leónida, affetto da sindrome di Croup, tenuto in cure dai dottori Ramón Baez e Brioso, i quali, per le situazioni contingenti, strapparono dal prematuro sepolcro, lo sfortunato bambino. Quella fu la prima volta che nella Repubblica Dominicana, si applicò una terapia scientifica contro la difterite, malattia che aveva stroncato sino ad allora migliaia di vite.
L’infanzia di Rafael fu abbastanza simile a quella degli altri bambini del posto. A sei anni fu iscritto alla scuola di Juan Hilario Meriño, ubicata nella casa del maestro, così come le altre quattro scuole del villaggio, tutte nelle case dei maestri, non essendoci scuole pubbliche. Dopo un anno di frequentazione, Rafael passò alla scuola di don Pablo Barinas, restandoci per i successivi quattro anni, imparando a leggere e scrivere e far di conto. Il maestro lo giudicava il più diligente. In quell’epoca fu anche chierichetto. Quell’insegnamento fu corroborato anche con quello della nonna Luisa Erciná Chevalier. Luisa era una delle persone più rispettate del posto. Era diventata vedova di suo marito Pedro Molina, nel 1869 e si era risposata con Juan Pablo Piña, uno dei pochi letterati del villaggio, il quale, talvolta aiutava Luisa nell’istruzione dei suoi nipoti. Due figli del suo secondo matrimonio, Teodulo e Plinio, diventarono amici di Rafael, il quale aveva una peculiarità rispetto agli altri bambini che da grande sarebbe diventata un’ossessione ed era quella di lavarsi, profumarsi e vestirsi bene, in contrasto con la povertà, il posto e i tempi. Rafael, fu spesse volte visto ben vestito e curato nell’aspetto, nel piccolo parco del villaggio, di fronte alla sua casa, anche se tutti i fratelli Trujillo vestivano meglio dei loro coetanei e per questo rispettati.  
Pur non accompagnando il padre e i fratelli nel crimine dell’abigeato, formando La Pandilla de Pepito, soprannome del padre, Rafael Leónidas si limitava a rubare nelle strade del suo paese natio, medaglie, catenine, orologi e quant’altro luceva, consegnandole alla madre, la quale quotidianamente le domandava cosa avesse portato di buono a casa.  Egli rispondeva che aveva raggranellato chapitas, cioè cianfrusaglie luccicanti. Chapita divenne uno dei suoi nomignoli più conosciuti. I suoi fratelli, scherzando e ridicolizzandolo, lo chiamavano Don Emiliano, riferendosi a Emiliano Tejeda, signore dal profilo umano inappuntabile, viste le differenze di profitti nelle ruberie.
A quindici anni Rafael si trasferì a Santo Domingo, dove frequentò un corso di telegrafia, per poi trovare un lavoro a San Cristóbal, nel 1907. Forte nel mantenere l’alcool, da telegrafista fu ripreso varie volte da alcune sue colleghe, per le sue grandi bevute sul posto di lavoro. Egli, forse per ferirle nell’orgoglio, soleva spogliarsi nudo di fronte a loro. 
Rafael, crescendo, si dedicò al lavoro di carpenteria. Da giovane era attratto dai cavalli e spesse volte lo si vedeva cavalcare al galoppo nella periferia di San Cristóbal, i cavalli di Eduardo Félix Papamandiapolis, francese, sposato con la cugina di suo padre, Cramen Silva Valdez, il quale aveva cavalli d’ottima fattura. Tra il 1910 e il 1916, anche Rafael si dedicò all’abigeato e fu acciuffato per la falsificazione di un assegno. Condannato al pagamento di una multa e al carcere, riuscì abilmente a evitarlo.
In quegli anni Rafael Trujillo cominciò a interessarsi alla politica, diventando un horacista, iscritto al Partito Nazionale di Horacio Vasquez. Nel dicembre del 1914, con l’elezione alla Presidenza della Repubblica di Juan Isidro Jimenez, ci furono ribellioni in varie parti della nazione, fermate da Horacio, il quale annunciò che non avrebbe sopportato insurrezioni da parte dei suoi seguaci. Il Ministro della Giustizia, Jacinto Peynado, promulgò una legge contro gli agitatori pro horacisti e molti furono arrestati.
Un giorno, uno dei rivoltosi, abbandonando il suo rifugio, si presentò nel dipartimento del Ministro chiedendo clemenza e poter tornare nella sua casa. Lo stato dell’uomo era deplorevole. Coperto di stracci, soffriva di denutrizione e gli mancavano alcuni denti. Era allo strenuo delle forze e totalmente inoffensivo. Non c’erano dubbi che sarebbe stato mandato a casa, per la recuperazione fisica. Prima di lasciarlo andare, Peynado gli chiese quale fosse il suo nome. Rafael Leonida Trujillo Molina, di San Cristobal, rispose. Per la serie Rafael Trujillo non dimentica, ventitré anni più tardi, Peynado fu nominato Presidente della Repubblica, dal duce.
Nel 1916, Trujillo era membro di una banda criminale denominata, La 44. Tra di loro c’era Miguel Angel Paulino, colui che negli anni del terrore divenne uno dei principali agenti di Trujillo. La banda usava rubare botteghe e magazzini e a qualsiasi crimine che avrebbe recato loro un guadagno.
Alla fine del 1916, Trujillo affrontò un rivale in amore, infliggendogli varie ferite con un machete. Scappato dal luogo infausto, Rafael si stabilì a San Perdo de Macoris, cittadina a cento chilometri da San Cristóbal, nella parte est dell’isola, dove per i successivi due anni lavorò in uno zuccherificio, ultima tappa prima di entrare nell’Esercito.
Trujillo era occupato a pesare i mezzi che arrivavano allo zuccherificio. L’impiego non piaceva a Rafael e dopo poco si fece nominare a guardia campestre, con il compito di prevenire incendi e dirimere discussioni tra gli operai. La vita in quei posti era disordinata e violenta e le dispute erano molto frequenti. Il suo impegno durava dodici ore al giorno, per sette giorni alla settimana e in caso di necessità il suo compito si protraeva anche di notte. Indossava una uniforme di cotone blu, con una scritta che gli conferiva il suo grado di guardia. Aveva in consegna un cavallo, con il quale girava nella zona a lui assegnata. La sua paga era di trenta dollari al mese.
La canna da zucchero fu introdotto nell’isola caraibica all’inizio della sua colonizzazione, dalle isole Canarie, durante il secondo viaggio di Cristoforo Colombo. Il primo mulino per l’estrazione dello zucchero fu quello di Nigua, del 1517. La canna cominciò a diffondersi lentamente in tutta l’isola, ma la prima vera piantagione fu realizzata a San Pedro de Macoris, nel 1880, con capitali nordamericani e italiani e quando ci fu l’occupazione statunitense, del 1916, l’industria proliferò ancor più. Quasi tutte le piantagioni si trovavano nella parte sudorientale dell’isola, non perché le terre erano più fertili, ma perché erano più accessibili e piane.
Durante il primo ventennio del secolo XX, fatto di conflitti tra le due fazioni più importanti, quelle dei Presidenti Jimenez e Vazquez, la nazione aveva subito drastici cambi. Per forti debiti verso gli Stati Uniti d’America e per la debole situazione politica e sociale, nel novembre del 1916, gli statunitensi, al comando del capitano Harry Knapp, occuparono l’isola, con l’intento di sollevare le sorti della nazione caraibica. Molti risultati positivi si ottennero, anche se, inevitabilmente, non mancarono gli aspetti negativi, fatti di abusi e crimini.
Nel dicembre del 1918, Rafael Trujillo, tramite una certificazione rilasciata dallo zuccherificio, nel descrivere le sue caratteristiche di guardiano integerrimo, chiese di entrare a far parte dell’Esercito Nazionale. La rapidità con cui la Guardia Nazionale rispose alla sollecitudine di arruolamento, la dice lunga sulla sua condizione, incamminandolo verso la sua nefasta gloria. Il giorno dopo Trujillo si sarebbe dovuto presentare di fronte al Maggiore James McLean, il quale non ebbe alcuna esitazione. Rafael Trujillo presentò le sue credenziali di uomo capace e senza scrupoli che avrebbe fatto di lui, il duce che la storia conosce, di fronte al comando nordamericano, all’epoca insediati nella Repubblica Dominicana, nel sedare gli insorti delle provincie a suo carico, di San Pedro de Macoris ed El Seibo. Dalla visita medica risultò che Rafael Trujillo era alto un metro e settanta, pesava 57 chilogrammi e aveva un torace di 80 centimetri. Trujillo godeva di buona salute e la sua domanda fu formalmente accettata il 27 dicembre del 1918, mentre l’11 gennaio del 1919 prestò giuramento, riscuotendo direttamente il grado di Secondo Tenente della Guardia Nazionale. Il suo destino era tracciato e la vita militare gli calzava a pennello. La carriera militare che avrebbe influenzato profondamente il popolo dominicano per i successivi decenni, sino alla sua morte e anche nel futuro, si stava materializzando.
Le notifiche dei suoi superiori nel primo anno furono eccellenti e anche le successive non lo furono meno. Il Maggiore Thomas Watson, suo superiore diretto, lo considerava uno dei migliori ufficiali in servizio. Rafael riceveva protezione dalle forze nordamericane, per svolgere il suo lavoro di controllo, nella migliore maniera possibile. Agli americani importava poco delle faccende spicciole interne. L’importante era la sua opera contro i sovversivi. Alcuni degli ufficiali statunitensi che lo proteggevano, dopo la seconda guerra mondiale, ascesero a importanti compiti militari nella loro patria, servendogli quando divenne Presidente della Repubblica Dominicana.
Trujillo aveva un’attività di controllo anche sulle case da gioco, in cui, a suo piacimento, in alcuni casi spogliava gli avventori dei loro averi. Un sabato fece una retata che portò nelle tasche di Trujillo, per l’epoca e per il luogo, l’incredibile somma di 14.000 dollari. Gli avventori erano dei contrattisti che avevano con loro grandi quantità di denaro, per il pagamento dei loro operai.
La Guardia Nazionale Dominicana, nel giugno del 1919, aveva dislocato 16 Secondi Tenenti, in altrettante provincie e Rafael Trujillo, nelle provincie dell’est, si distacca per il suo profondo amoralismo. Una volta fu coinvolto nello stupro di Isabel Guzmán, ragazza di sedici anni, ma dopo accurate indagini, per le sue protezioni, fu assolto, ma la sua estraneità al caso non era condivisa da nessuno. 
A quell’epoca Trujillo chiese la sua iscrizione nel più importante club di intrattenimento del Seibo. Nonostante i suoi sforzi per rendersi piacevole e appetibile, la richiesta d’iscrizione al club fu rigettata. Questi furono i primi rancori che serpeggiarono nella sua anima, dando vita a voglie di rivalse.
Nel 1921, nell’Accademia Militare di Haina, a pochi chilometri dalla capitale Santo Domingo, Trujillo, dopo aver frequentato un corso di quattro mesi, con eccellenti risultati, fu designato comandante delle forze a San Pedro de Macorís. Un mese dopo fu designato a Santiago e nel 1922 fu promosso capitano. In quell’anno la Guardia Nazionale si convertì in Polizia Nazionale. Tra il maggio e l’agosto del 1923, Trujillo frequentò un altro corso d’addestramento militare, questa volta nella Scuola di Ufficiali, ricevendo ancora delle note encomiabili.
Trujillo cercava di frequentare il colonnello Thomas Watson, figura primaria delle forze d’occupazione americane, suo addestratore nella Scuola di Ufficiali, per la sua scalata al potere. Alla fine del corso Trujillo scriveva: “Il sottoscritto desidera esprimere la sua gratitudine a lei e agli altri ufficiali statunitensi che hanno partecipato alla mia formazione, per la cordiale e corretta condotta mantenuta con gli ufficiali dominicani e per l’insegnamento impartito.” A differenza dei suoi compatrioti, Trujillo non sentiva disgusto per l’occupazione americana nel suo suolo patrio, anzi, verso di loro sentiva vera gratitudine, per i loro insegnamenti.
Nel 1924, il Maggiore Cesar Lora, comandante del dipartimento nord della Polizia Nazionale, morì in circostante complesse. Innamoratosi di una donna sposata, il marito li scoprì in flagranza di reato, sotto un ponte. Dieci giorni dopo la morte di Lora, Trujillo fu nominato comandate della guarnigione e poi a settembre asceso a Maggiore. Negli anni a seguire, Trujillo fu additato come l’informatore della relazione del Maggiore Lora con la donna dell’assassino, cosi come il posto dove si consumò il nefasto incontro tra i due fedifraghi. Il 6 dicembre del 1924, il Presidente della Repubblica Dominicana, Horacio Vasquez lo nominò Tenente Colonello e Capo delle Forze Armate. Nel susseguirsi delle sue ascensioni militari, con ritmo incalzante, accaddero numerosi fatti a lui favorevoli.
Dopo un soddisfacente inizio, l’occupazione nordamericana cominciò ad accusare forti contrasti con l’opinione pubblica dominicana. Nel 1922 si cominciarono a stabilire i termini della fine dell’occupazione che avvenne nel settembre dello stesso anno. Nell’isola si organizzarono le elezioni presidenziali che ebbero luogo nel maggio del 1924, vinte da Horacio Vasquez. Con la fuoriuscita degli statunitensi, Trujillo ricevette ancor più poteri, arrivando al grado di Colonnello.
Il 13 agosto del 1927, Trujillo fu asceso a generale di Brigata e nominato comandante in capo della Polizia Nazionale. Due giorni dopo fu investito in una cerimonia ufficiale dal presidente della nazione, Horazio Vasquez. Dopo dieci anni dal suo ingresso nell’istituzione, giungeva al più alto rango militare della nazionale e numero due dello Stato, dopo il presidente.
Trujillo si circondò di amici fedeli, per la presa finale del potere e quando i suoi avversari politici cerarono di limitare la sua autorità, era troppo tardi. Sostenuto dal presidente Vasquez, il 15 Maggio del 1928, convertì la Polizia, in Esercito Nazionale e Trujillo passò a essere il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Dal 1928 al 1930, Rafael Trujillo e i suoi fratelli Héctor, Aníbal e José Arismendy, occupavano alte gerarchie dell’esercito, sostenuti dagli statunitensi e dalla penna di un suo parente giornalista, Icódulo Pina Chevalier.   





Testo tratto dal libro: 

"Rafael Leónidas Trujillo Molina Il Duce di Santo Domingo"






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martes, 1 de octubre de 2024

Cisne





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        CXII Exposición Individual de Fotografías:             "Altos de Chavon" del 12 al 27 de Octubre,                    en la Galeria de Arte, MAXART.










































































































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