viernes, 1 de noviembre de 2024

Rafael Trujillo

 

 



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        CXIII Exposición Individual de Fotografías:                 "Niños IV" del 9 al 24 de Noviembre,                           en la Galeria de Arte, MAXART.










Rafael Leónidas Trujillo Molina

Alla fine del XIX secolo, a venti chilometri a ovest da Santo Domingo, Repubblica Dominicana, dopo aver attraversato il fiume Haina, c’era un piccolo centro abitato di 1.500 anime, fondato nel 1822 dal padre Ayala, chiamato San Cristobal.
Rafael Leónidas Trujillo Molina nacque proprio in quel paesino, oggi inglobato nei lunghi tentacoli della popolosa capitale dominicana, il 24 ottobre del 1891.
Nel 1844, il villaggio ebbe un momento di gloria. Gli haitiani erano stati sconfitti e cacciati dalla Repubblica Dominicana e i nativi avevano bisogno di redigere la loro prima Costituzione. Fuori dalle ingerenze della più popolosa capitale, i padri costituenti scelsero quel tranquillo paesino, per stilare quel documento tanto importante, per la nascente repubblica. Quindi, la Costituzione fu promulgata il 6 novembre 1944. San Cristobal si sviluppava con le sue casupole e capanne, lungo una strada principale, chiamata in seguito, Via della Costituzione. Pur senza un tracciato urbano, l’agglomerato aveva poi, alcune stradine parallele e alcune perpendicolari che supponevano un futuro sviluppo demografico. Aveva una chiesa e un parco. Attorno al villaggio pascolava indisturbato il bestiame che forniva parte del sostentamento del borgo. Fuori vi era una folta vegetazione fatta di piante di cacao, banane, mais e altri cespiti. Parte della frutta e verdura che alimentava la capitale, Santo Domingo, proveniva da quelle terre.
José Trujillo Monagas, nonno del dittatore per parte di padre, arrivò a Santo Domingo dalle isole Canarie, originario di Tenerife, come integrante delle truppe spagnole di rinforzo, durante l’annessione della Repubblica Dominicana, alla Spagna e spedito a Las Matas de Farfán, villaggio vicino al confine con Haiti. In loco conobbe la mulatta Silveria Valdez Méndez, con la quale procreò il suo primogenito José Trujillo Valdez, padre di Rafael Leónidas, riconosciuto anagraficamente solo molti anni dopo. José Trujillo Monagas, nonno, fu fatto prigioniero dai patrioti dominicani e traslatato a Jánico, nella Cordillera Central dell’isola caraibica, dov’erano detenuti altri militari spagnoli. Giudicato e condannato a morte dai patrioti, gli fu condonata la pena poiché non essendoci paramedici nell’accampamento, fu giudicato idoneo all’infermeria. Poi, fu trasferito a Cuba e dopo un secondo breve soggiorno nella Repubblica Dominicana, alla fine della guerra si stabilì definitivamente a L’Avana, servendo nel corpo di polizia, per ventitré anni. Nell’eludere l’azione delinquenziale di diversi feroci individui, in varie occasioni ricevette riconoscimenti e decorazioni, sino ad arrivare agli allori delle cronache. Il 9 luglio del 1881, fu nominato Vice Capo delle forze militari della provincia di L’Avana e a fine anno, Capo. 
José Trujillo Monagas, nel 1882, mentre studiava diritto civile e canonico nell’università di L’Avana, laureandosi nel luglio del 1886, fece editare in Barcellona, Spagna, un libro dove descriveva gli eventi di guerra da lui vissuti e tre sonetti, dando mostra di una fine e sensibile anima. Alla fine della guerra cubano-spagnola e conseguente ritirata delle truppe d’occupazione statunitensi, José ebbe il permesso di restare a L’Avana, esercitando la carriera di avvocato e notaio sino alla morte, lasciando prole in loco. 
Attorno al 1880, Silveria Valdez Méndez, gli inviò il figlio José, perché lo potesse riconoscere, dandogli il suo cognome e avviarlo alla vita. Al tempo Silveria era una delle maggiori attiviste e capo regionale del lilismo, per le città del sud della Repubblica Dominicana, Azua, Baní e San Cristóbal. Lilismo viene da Lilis, diminutivo del presidente Hulises Heureaux che governò la Repubblica Dominicana in tre occasioni, nell’ultimo ventennio del XIX secolo.
I genitori del duce, José Trujillo Valdez y Altagracia Julia Molina si sposarono in San Cristobal, il 29 settembre 1887. José Trujillo Valdez, conosciuto come don Pepe, ufficialmente era un piccolo commerciate di bestiame, caffè, tabacco, legno e traverse ferroviarie. In realtà, per sbarcare il lunario della sua numerosa famiglia, dedicò tutti i suoi affanni all’abigeato, considerando che non c’era miglior metodo per arrivare a possedere una mandria di bestiame che rubandolo.
Il padre del grande dittatore era un ladro e anche se molte volte eluse l’azione della giustizia, in altre dovette rispondere delle sue azioni di fronte a un tribunale. Quando suo figlio raggiunse il grandino più alto dello Stato, l’insigne ladro raggiunse i più alti onori. Fu elevato a Senatore. Il suo nome fu affibbiato a una provincia, la sua effige fu collocata nel salone del Congresso Nazionale, a fianco di Duarte, Sánchez e Mella, padri della patria e cose roboanti di questo genere. In suo onore fu istituito il giorno del padre, facendolo passare per simbolo di onestà e virtù. Il suo nome risultava effigiato su strade e piazze, su ponti e canali e alla sua morte ebbe gli onori che si tributavano agli imperatori. Il suo corpo fu inumato nella Cappella degli Immortali, nella Prima Cattedrale del Continente Americano, a fianco di Cristoforo Colombo, poi entrambi trasferiti, il primo nell’immondizia, da parte del popolo dominicano e il secondo nel maestoso mausoleo di Santo Domingo, appositamente costruito, con il contributo di tutti i paesi dell’America Latina.
Il Faro di Colombo, così com’è chiamato, è un monumento di cemento armato a forma di croce, lungo 210 metri e alto 36. Una luce laser, posta nell’estremità superiore del mausoleo, riflette una croce nel firmamento, visibile dallo spazio, sino a 64 chilometri di altezza. Il Faro fu inaugurato in occasione della celebrazione del quinto centenario della scoperta di America, il 6 ottobre del 1992, 6 giorni prima del dovuto.
José Trujillo Valdez era un uomo gradevole e non portava rancore a nessuno, caratteristica che ironicamente avrebbe contraddistinto anche suo figlio Rafael Leonida. Nel complesso, pur non avendo molti difetti, non aveva neanche molti pregi. Quello che lo caratterizzava era la sua licenziosità che trasmise a tutti i suoi figli, causando le ire della sua consorte. D’altronde era facile esserlo, in un paese dove le regole erano una chimera e la libido era ed è alta. Si dedicava a festeggiare con i vicini di casa, ballando e bevendo, unico diletto di quei miseri anfratti. Quindi, le sue esternazioni non causavano il disgusto di nessuno, giacché erano piccoli misfatti, comuni alla stragrande maggioranza delle persone del luogo e del tempo, non disdegnate nemmeno oggigiorno.
Un giorno, seduto nella sala d’attesa del Palazzo Presidenziale, vide che suo figlio gli si avvicinava. Lo accolse con un sorriso, essendone orgoglioso, ma lo stesso lo redarguì dicendo che all’arrivo del Presidente della Repubblica doveva mettersi in piedi, suscitando la sua amarezza. Il tapino morì il primo giugno del 1935, per abuso di droghe atte a mantenere una buona vigoria sessuale, complicato con lo strascico di una influenza mal curata.  
Sua moglie Altagracia Julia Molina Chevalier, madre del dittatore, in seguito nota come Mamá Julia, era la figlia del contadino dominicano Pedro Molina Peña e della maestra Luisa Erciná Chevalier, i cui genitori pur haitiani, erano di discendenza francese. La sua casa e quella della famiglia Trujillo, il despota ci visse sino all’età adulta, era di legno, dipinta di rosso, con il tetto di lamine di zinco, cosi come quasi tutte le case del posto. La casa era abbastanza grande, avendo sei camere da letto, una cucina e una sala. Altagracia, donna sincera, onorabile, buona e semplice, ma dalla mente confusa, svolgeva l’attività di sarta. Dai vicini era considerata una santa, per sopportare le angherie del marito.
Poi, il figlio la convertì in prima dama e il ritratto con suo marito fu riprodotto in un francobollo. Per questa mulatta, anche se le visite del figlio, già Presidente della Repubblica, non durano più di cinque minuti, erano un martirio, ma Rafael ci teneva, per essere catalogato come un figlio modello. Per la sua gloria, Trujillo stabilì che il giorno nazionale della madre, coincidesse con quello della sua nascita. La signora, a cui importavano poco le manovre del figlio, nella sontuosa residenza concessole dallo stesso, doveva sopportare le visite per lei inopportune, di alti militari, di deputati e senatori, di altri manichini imbellettati del regime, di gruppi di donne del Partito Dominicano, con le loro splendide offerte floreali. L’effige della eccelsa matrona e prima dama, Julia Molina, fu stampata in un francobollo celebrativo ordinato da Don Pipí Troncoso, in occasione del giorno della madre, del 1940. 
Rafael Leónidas Trujillo Molina fu un militare, politico e dittatore della Repubblica Dominicana, dal 1930, sino al suo assassinio, del 30 maggio 1961. Esercitò la presidenza della Repubblica dal 1930 al 1938 e dal 1942 al 1952 e governando tramite presidenti fantoccio nei restanti anni. I suoi trentuno anni di governo sono conosciuti come L’Era Trujillo, considerata una delle tirannie più sanguinarie dell’America Latina. Il suo governo si caratterizzò per l’anticomunismo, la repressione dell’opposizione e il culto della sua personalità. I diritti civili furono calpestati e si commisero costanti violazioni. Sottomise il paese in uno stato di panico e rispetto e le condanne a morte erano fatte passare per incidenti. Chiunque non era d’accordo con il suo regime poteva essere incarcerato, torturato e assassinato.
I partitari di Trujillo, mettono in evidenza alcuni lati positivi del suo regime dittatoriale, come la fine del caudillismo, per la instabilità politica che procurava, il ripristino dell’ordine pubblico, lo sviluppo economico del paese. Durante il suo regime, Trujillo fece funzionare all’unisono tutti i ministeri, stabilendo un monopolio su tutto quello che poteva arricchirlo, accumulando un’enorme fortuna, in parte recuperata dai successivi governi semi democratici. Il suo regime causò circa cinquanta mila morti, principalmente dominicani, ma anche haitiani, cubani, colombiani, venezuelani, spagnoli.  
Il caudillismo fu un fenomeno politico sociale, sorto nell’America Latina, nel XIX secolo. Il caudillo veniva nominato dal popolo per acclamazione, per gestire fette di territori. In alcuni casi, il caudillo arrivava alla dittatura di una intera nazione. Quando le masse venivano disilluse dal loro eletto, se ne acclamava un altro.   
Nelle stranezze della storia, Rafael Leónidas Trujillo Molina appare nelle cronache giornalistiche, all’età di cinque anni, affetto dalla sindrome di Croup. Questa malattia, innescata da un’infezione virale acuta delle vie aeree superiori, laringotracheobronchite, gonfia la gola e interferisce con la respirazione. All’epoca, in quelle aree, la patologia colpiva il 15% dei bambini tra i 6 mesi e i 6 anni. La causa principale della sindrome di Croup è la difterite, curata all’epoca con steroidi, mentre oggi, per l’igiene e la vaccinazione, la patologia è svanita.
Nell’edizione del 3 settembre 1897, del Listin Diario, quotidiano nato il primo agosto del 1889, unico informatore locale in quello scorcio di fine XIX secolo, si raccontavano le disavventure sanitarie del piccolo Rafael Leónida, affetto da sindrome di Croup, tenuto in cure dai dottori Ramón Baez e Brioso, i quali, per le situazioni contingenti, strapparono dal prematuro sepolcro, lo sfortunato bambino. Quella fu la prima volta che nella Repubblica Dominicana, si applicò una terapia scientifica contro la difterite, malattia che aveva stroncato sino ad allora migliaia di vite.
L’infanzia di Rafael fu abbastanza simile a quella degli altri bambini del posto. A sei anni fu iscritto alla scuola di Juan Hilario Meriño, ubicata nella casa del maestro, così come le altre quattro scuole del villaggio, tutte nelle case dei maestri, non essendoci scuole pubbliche. Dopo un anno di frequentazione, Rafael passò alla scuola di don Pablo Barinas, restandoci per i successivi quattro anni, imparando a leggere e scrivere e far di conto. Il maestro lo giudicava il più diligente. In quell’epoca fu anche chierichetto. Quell’insegnamento fu corroborato anche con quello della nonna Luisa Erciná Chevalier. Luisa era una delle persone più rispettate del posto. Era diventata vedova di suo marito Pedro Molina, nel 1869 e si era risposata con Juan Pablo Piña, uno dei pochi letterati del villaggio, il quale, talvolta aiutava Luisa nell’istruzione dei suoi nipoti. Due figli del suo secondo matrimonio, Teodulo e Plinio, diventarono amici di Rafael, il quale aveva una peculiarità rispetto agli altri bambini che da grande sarebbe diventata un’ossessione ed era quella di lavarsi, profumarsi e vestirsi bene, in contrasto con la povertà, il posto e i tempi. Rafael, fu spesse volte visto ben vestito e curato nell’aspetto, nel piccolo parco del villaggio, di fronte alla sua casa, anche se tutti i fratelli Trujillo vestivano meglio dei loro coetanei e per questo rispettati.  
Pur non accompagnando il padre e i fratelli nel crimine dell’abigeato, formando La Pandilla de Pepito, soprannome del padre, Rafael Leónidas si limitava a rubare nelle strade del suo paese natio, medaglie, catenine, orologi e quant’altro luceva, consegnandole alla madre, la quale quotidianamente le domandava cosa avesse portato di buono a casa.  Egli rispondeva che aveva raggranellato chapitas, cioè cianfrusaglie luccicanti. Chapita divenne uno dei suoi nomignoli più conosciuti. I suoi fratelli, scherzando e ridicolizzandolo, lo chiamavano Don Emiliano, riferendosi a Emiliano Tejeda, signore dal profilo umano inappuntabile, viste le differenze di profitti nelle ruberie.
A quindici anni Rafael si trasferì a Santo Domingo, dove frequentò un corso di telegrafia, per poi trovare un lavoro a San Cristóbal, nel 1907. Forte nel mantenere l’alcool, da telegrafista fu ripreso varie volte da alcune sue colleghe, per le sue grandi bevute sul posto di lavoro. Egli, forse per ferirle nell’orgoglio, soleva spogliarsi nudo di fronte a loro. 
Rafael, crescendo, si dedicò al lavoro di carpenteria. Da giovane era attratto dai cavalli e spesse volte lo si vedeva cavalcare al galoppo nella periferia di San Cristóbal, i cavalli di Eduardo Félix Papamandiapolis, francese, sposato con la cugina di suo padre, Cramen Silva Valdez, il quale aveva cavalli d’ottima fattura. Tra il 1910 e il 1916, anche Rafael si dedicò all’abigeato e fu acciuffato per la falsificazione di un assegno. Condannato al pagamento di una multa e al carcere, riuscì abilmente a evitarlo.
In quegli anni Rafael Trujillo cominciò a interessarsi alla politica, diventando un horacista, iscritto al Partito Nazionale di Horacio Vasquez. Nel dicembre del 1914, con l’elezione alla Presidenza della Repubblica di Juan Isidro Jimenez, ci furono ribellioni in varie parti della nazione, fermate da Horacio, il quale annunciò che non avrebbe sopportato insurrezioni da parte dei suoi seguaci. Il Ministro della Giustizia, Jacinto Peynado, promulgò una legge contro gli agitatori pro horacisti e molti furono arrestati.
Un giorno, uno dei rivoltosi, abbandonando il suo rifugio, si presentò nel dipartimento del Ministro chiedendo clemenza e poter tornare nella sua casa. Lo stato dell’uomo era deplorevole. Coperto di stracci, soffriva di denutrizione e gli mancavano alcuni denti. Era allo strenuo delle forze e totalmente inoffensivo. Non c’erano dubbi che sarebbe stato mandato a casa, per la recuperazione fisica. Prima di lasciarlo andare, Peynado gli chiese quale fosse il suo nome. Rafael Leonida Trujillo Molina, di San Cristobal, rispose. Per la serie Rafael Trujillo non dimentica, ventitré anni più tardi, Peynado fu nominato Presidente della Repubblica, dal duce.
Nel 1916, Trujillo era membro di una banda criminale denominata, La 44. Tra di loro c’era Miguel Angel Paulino, colui che negli anni del terrore divenne uno dei principali agenti di Trujillo. La banda usava rubare botteghe e magazzini e a qualsiasi crimine che avrebbe recato loro un guadagno.
Alla fine del 1916, Trujillo affrontò un rivale in amore, infliggendogli varie ferite con un machete. Scappato dal luogo infausto, Rafael si stabilì a San Perdo de Macoris, cittadina a cento chilometri da San Cristóbal, nella parte est dell’isola, dove per i successivi due anni lavorò in uno zuccherificio, ultima tappa prima di entrare nell’Esercito.
Trujillo era occupato a pesare i mezzi che arrivavano allo zuccherificio. L’impiego non piaceva a Rafael e dopo poco si fece nominare a guardia campestre, con il compito di prevenire incendi e dirimere discussioni tra gli operai. La vita in quei posti era disordinata e violenta e le dispute erano molto frequenti. Il suo impegno durava dodici ore al giorno, per sette giorni alla settimana e in caso di necessità il suo compito si protraeva anche di notte. Indossava una uniforme di cotone blu, con una scritta che gli conferiva il suo grado di guardia. Aveva in consegna un cavallo, con il quale girava nella zona a lui assegnata. La sua paga era di trenta dollari al mese.
La canna da zucchero fu introdotto nell’isola caraibica all’inizio della sua colonizzazione, dalle isole Canarie, durante il secondo viaggio di Cristoforo Colombo. Il primo mulino per l’estrazione dello zucchero fu quello di Nigua, del 1517. La canna cominciò a diffondersi lentamente in tutta l’isola, ma la prima vera piantagione fu realizzata a San Pedro de Macoris, nel 1880, con capitali nordamericani e italiani e quando ci fu l’occupazione statunitense, del 1916, l’industria proliferò ancor più. Quasi tutte le piantagioni si trovavano nella parte sudorientale dell’isola, non perché le terre erano più fertili, ma perché erano più accessibili e piane.
Durante il primo ventennio del secolo XX, fatto di conflitti tra le due fazioni più importanti, quelle dei Presidenti Jimenez e Vazquez, la nazione aveva subito drastici cambi. Per forti debiti verso gli Stati Uniti d’America e per la debole situazione politica e sociale, nel novembre del 1916, gli statunitensi, al comando del capitano Harry Knapp, occuparono l’isola, con l’intento di sollevare le sorti della nazione caraibica. Molti risultati positivi si ottennero, anche se, inevitabilmente, non mancarono gli aspetti negativi, fatti di abusi e crimini.
Nel dicembre del 1918, Rafael Trujillo, tramite una certificazione rilasciata dallo zuccherificio, nel descrivere le sue caratteristiche di guardiano integerrimo, chiese di entrare a far parte dell’Esercito Nazionale. La rapidità con cui la Guardia Nazionale rispose alla sollecitudine di arruolamento, la dice lunga sulla sua condizione, incamminandolo verso la sua nefasta gloria. Il giorno dopo Trujillo si sarebbe dovuto presentare di fronte al Maggiore James McLean, il quale non ebbe alcuna esitazione. Rafael Trujillo presentò le sue credenziali di uomo capace e senza scrupoli che avrebbe fatto di lui, il duce che la storia conosce, di fronte al comando nordamericano, all’epoca insediati nella Repubblica Dominicana, nel sedare gli insorti delle provincie a suo carico, di San Pedro de Macoris ed El Seibo. Dalla visita medica risultò che Rafael Trujillo era alto un metro e settanta, pesava 57 chilogrammi e aveva un torace di 80 centimetri. Trujillo godeva di buona salute e la sua domanda fu formalmente accettata il 27 dicembre del 1918, mentre l’11 gennaio del 1919 prestò giuramento, riscuotendo direttamente il grado di Secondo Tenente della Guardia Nazionale. Il suo destino era tracciato e la vita militare gli calzava a pennello. La carriera militare che avrebbe influenzato profondamente il popolo dominicano per i successivi decenni, sino alla sua morte e anche nel futuro, si stava materializzando.
Le notifiche dei suoi superiori nel primo anno furono eccellenti e anche le successive non lo furono meno. Il Maggiore Thomas Watson, suo superiore diretto, lo considerava uno dei migliori ufficiali in servizio. Rafael riceveva protezione dalle forze nordamericane, per svolgere il suo lavoro di controllo, nella migliore maniera possibile. Agli americani importava poco delle faccende spicciole interne. L’importante era la sua opera contro i sovversivi. Alcuni degli ufficiali statunitensi che lo proteggevano, dopo la seconda guerra mondiale, ascesero a importanti compiti militari nella loro patria, servendogli quando divenne Presidente della Repubblica Dominicana.
Trujillo aveva un’attività di controllo anche sulle case da gioco, in cui, a suo piacimento, in alcuni casi spogliava gli avventori dei loro averi. Un sabato fece una retata che portò nelle tasche di Trujillo, per l’epoca e per il luogo, l’incredibile somma di 14.000 dollari. Gli avventori erano dei contrattisti che avevano con loro grandi quantità di denaro, per il pagamento dei loro operai.
La Guardia Nazionale Dominicana, nel giugno del 1919, aveva dislocato 16 Secondi Tenenti, in altrettante provincie e Rafael Trujillo, nelle provincie dell’est, si distacca per il suo profondo amoralismo. Una volta fu coinvolto nello stupro di Isabel Guzmán, ragazza di sedici anni, ma dopo accurate indagini, per le sue protezioni, fu assolto, ma la sua estraneità al caso non era condivisa da nessuno. 
A quell’epoca Trujillo chiese la sua iscrizione nel più importante club di intrattenimento del Seibo. Nonostante i suoi sforzi per rendersi piacevole e appetibile, la richiesta d’iscrizione al club fu rigettata. Questi furono i primi rancori che serpeggiarono nella sua anima, dando vita a voglie di rivalse.
Nel 1921, nell’Accademia Militare di Haina, a pochi chilometri dalla capitale Santo Domingo, Trujillo, dopo aver frequentato un corso di quattro mesi, con eccellenti risultati, fu designato comandante delle forze a San Pedro de Macorís. Un mese dopo fu designato a Santiago e nel 1922 fu promosso capitano. In quell’anno la Guardia Nazionale si convertì in Polizia Nazionale. Tra il maggio e l’agosto del 1923, Trujillo frequentò un altro corso d’addestramento militare, questa volta nella Scuola di Ufficiali, ricevendo ancora delle note encomiabili.
Trujillo cercava di frequentare il colonnello Thomas Watson, figura primaria delle forze d’occupazione americane, suo addestratore nella Scuola di Ufficiali, per la sua scalata al potere. Alla fine del corso Trujillo scriveva: “Il sottoscritto desidera esprimere la sua gratitudine a lei e agli altri ufficiali statunitensi che hanno partecipato alla mia formazione, per la cordiale e corretta condotta mantenuta con gli ufficiali dominicani e per l’insegnamento impartito.” A differenza dei suoi compatrioti, Trujillo non sentiva disgusto per l’occupazione americana nel suo suolo patrio, anzi, verso di loro sentiva vera gratitudine, per i loro insegnamenti.
Nel 1924, il Maggiore Cesar Lora, comandante del dipartimento nord della Polizia Nazionale, morì in circostante complesse. Innamoratosi di una donna sposata, il marito li scoprì in flagranza di reato, sotto un ponte. Dieci giorni dopo la morte di Lora, Trujillo fu nominato comandate della guarnigione e poi a settembre asceso a Maggiore. Negli anni a seguire, Trujillo fu additato come l’informatore della relazione del Maggiore Lora con la donna dell’assassino, cosi come il posto dove si consumò il nefasto incontro tra i due fedifraghi. Il 6 dicembre del 1924, il Presidente della Repubblica Dominicana, Horacio Vasquez lo nominò Tenente Colonello e Capo delle Forze Armate. Nel susseguirsi delle sue ascensioni militari, con ritmo incalzante, accaddero numerosi fatti a lui favorevoli.
Dopo un soddisfacente inizio, l’occupazione nordamericana cominciò ad accusare forti contrasti con l’opinione pubblica dominicana. Nel 1922 si cominciarono a stabilire i termini della fine dell’occupazione che avvenne nel settembre dello stesso anno. Nell’isola si organizzarono le elezioni presidenziali che ebbero luogo nel maggio del 1924, vinte da Horacio Vasquez. Con la fuoriuscita degli statunitensi, Trujillo ricevette ancor più poteri, arrivando al grado di Colonnello.
Il 13 agosto del 1927, Trujillo fu asceso a generale di Brigata e nominato comandante in capo della Polizia Nazionale. Due giorni dopo fu investito in una cerimonia ufficiale dal presidente della nazione, Horazio Vasquez. Dopo dieci anni dal suo ingresso nell’istituzione, giungeva al più alto rango militare della nazionale e numero due dello Stato, dopo il presidente.
Trujillo si circondò di amici fedeli, per la presa finale del potere e quando i suoi avversari politici cerarono di limitare la sua autorità, era troppo tardi. Sostenuto dal presidente Vasquez, il 15 Maggio del 1928, convertì la Polizia, in Esercito Nazionale e Trujillo passò a essere il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Dal 1928 al 1930, Rafael Trujillo e i suoi fratelli Héctor, Aníbal e José Arismendy, occupavano alte gerarchie dell’esercito, sostenuti dagli statunitensi e dalla penna di un suo parente giornalista, Icódulo Pina Chevalier.   





Testo tratto dal libro: 

"Rafael Leónidas Trujillo Molina Il Duce di Santo Domingo"






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martes, 1 de octubre de 2024

Cisne





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        CXII Exposición Individual de Fotografías:             "Altos de Chavon" del 12 al 27 de Octubre,                    en la Galeria de Arte, MAXART.










































































































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domingo, 1 de septiembre de 2024

Poesie

 



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        CXI Exposición Individual de Fotografías:        "Caribbean Faces VIII" del 7 al 22 de Septiembre,               en la Galeria de Arte, MAXART.










Ti  ricordi?

 

Ti ricordi quando eravamo giovani?

Di notte si sentiva latrare i cani per le strade

e qualche uccello notturno che scandiva l’ore.

Ti vedevo spesso con le tue amiche frivole

e tu eri sempre più bella come nelle favole.

Sotto casa due calci al pallone,

alla radio le partite e le canzoni. 

Il paese era essenziale e giusto,

come le ragazze senza inganni e trucchi.

Si aspettava il giorno della festa,

in quegli che erano gli anni della protesta.

Poi per scherzo tu mi dicesti si,

con la mediazione dell’amico un po’ così.

 Qualche ballo su una mattonella,

qualche bacio alla chetichella,

ma poi chi ti ha vista più?

Eppure dopo tanti anni,

ti sento battere nel cuore,

ti penso sempre a tutte le ore.

Ma ora il tempo non è più,

ore sei solo il nulla tu.

 

 

 

 

 





 

 

 

La mia donna

 

Tu che rendi tristi o felici i giorni miei,

non far che il tempo si insinui tra le tue gote,

la mia donna vorrei fosse lasciata in pace.

 Non scalfire con le tue dannate unghia,

il di lei viso fiammante e luminoso.

Essere degna di ben altro percorso,

affiancata alla luce del più alto rango,

merita la mia fascinosa donna.

 

 









 

Agreste  lucano

 

La terra imbrattata di luce e di pianto,

è dei contadini disperati al vento,

che sputano in caverne tra le pietre del tempo.

Per un giorno sperduto di santi e di bande,

riposano su stridenti guanciali di paglia,

graziando un anno di gelo e di fuoco,

al padrone che non rispetta nemmeno un poco,

la perizia di scrostare burroni e calanchi.

Cucita sulla pelle cotta dal sole il colore di terra,

indossano panni per mietere e arare per anni.

Quando finita è la festa lampante li aspetta,

un altro anno nella schifosa tempesta,

mangiando frattaglie e ributtanti zanzare,

che ti succhiano sangue tra spine di rovo,

senza donne che ti dicono qualcosa di nuovo.

E le aie perniciose che ti tolgono il fiato,

tra le polveri d’oro di un anno fruttuoso.

Alla fine restano macerie di anime morte,

stupite e stremate come ombre contorte,

in un lago placato riflesse e convesse.

 

 

 

 

 

 

 



 

 

 

 

Al  mio  fianco  

 

Vorrei avere sempre al mio fianco,

una che mi ristori se sono stanco,

che mi cerchi quando sono lontano,

che mi coccoli ora che sono decano.

 

Che non abbia vergogna di spogliarsi sempre,

che mi imbecchi al ballo e scopri il suo ventre

e quando vien mattina come un fiore aperto,

imbrigli le sue gambe attorno al mio deserto.

 

Una turbativa d’asta sei per la mia mente,

divento il tuo placido e tortuoso affluente,

leggo la tua preziosa pelle con uno sguardo,

dammi languide carezze e tienimi riguardo.


Sei corazzata che spara parole di fuoco,

 d’amore e di servigi in un intricato gioco,

cambi idea per nulla ma non sembri falsa

e se ti ammonisco cerchi una tua rivalsa.

 

Stipuliamo una pace che non sia un verdetto,

hai diritto a un strutturale cambio d’assetto, 

i rapporti non si curano con il matrimonio,

una festa che dura poco come il patrimonio.

 

 




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jueves, 1 de agosto de 2024

Lucio Tarquinio Prisco Il Faccendiere e Servio Tullio l’Opportunista

 




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        CX Exposición Individual de Fotografías:                    "Asopao" del 10 al 25 de Agosto,                             en la Galeria de Arte, MAXART.












         Lucio Tarquinio Prisco Il Faccendiere




Lucio Tarquinio Prisco, Lucius Tarquinius Priscus, mori nel 579 a.C.. Sconosciuta è la sua data di nascita. Lucio Tarquinio Prisco è stato il quinto re di Roma per trentotto anni, regnando dal 616 a.C., fino alla morte. Lucio Tarquinio era nato a Tarquinia da madre Etrusca e da padre Greco, nobile e ricco cittadino di Corinto, espulso dalla sua città per motivi politici chiamato Demarato. Riparò a Tarquinia, dove si sposò ed ebbe due figli chiamati Lucumone e Arrunte. Quest’ultimo morì prima del padre, il quale non gli sopravvisse per molto, lasciando tutti i suoi averi al figlio minore Lucumone. Demarato, pur sapendo che sua nuora, la moglie di Arrunte era in dolce attesa, nel testamento non menzionò il futuro nipotino e Lucumone fu l’erede universale. Il pupo quando nacque fu chiamato Egerio, dal latino egere, aver bisogno, infatti sua madre viveva nella miseria, senza il becco d’un quattrino. Lucumone, al contrario, con tutto il ben di dio che il padre gli aveva lasciato, aveva il solo problema di farli fruttare. Lucumone sposò l’altrettanto ricca e nobile Tanaquilla, intelligente, diabolica e assetata di gloria. Orgogliosa e impavida, sapeva anche guidare i carri da corsa. Tanaquilla, dovette fare opera di persuasione per convincere il marito a lasciare Tarquinia e andare a Roma, la nascente metropoli dove ogni razza e provenienza era accettata. Lucumone a Tarquinia non si sentiva realizzato, poiché gli si precludeva ogni carica politica, essendo figlio di uno straniero. Così, con molti carri pieni dei loro beni affrontarono il destino che avrebbe cambiato la storia. “Il mio popolo ha già le sue famiglie dominanti. Qui sarai solo un ricco straniero senza possibilità d’inserimento. Se andiamo a Roma, città aperta e in espansione, otterrai il prestigio a cui aspiri.”

 

Mentre i due stavano per entrare a Roma, nei pressi del Gianicolo, un’aquila scese lenta su Lucumone e gli portò via il copricapo. Si alzò in cielo e subito dopo ridiscendendo lo ripose sulla testa. Il marito si spaventò ritenendolo un segno infausto, ma la moglie Tanaquilla che come tutti gli Etruschi era esperta in auruspicina, interpretò il fatto come una benedizione di Giove, predicendogli un avvenire glorioso. A Roma, per integrarsi prima e meglio, cambiarono i loro nomi in Lucius Tarquinius e Gaia Cecilia. Poi, ebbe l’appellativo di Priscus, per distinguerlo dal Superbo. Era il 631 a.C., quando Lucumone si stabilì  a Roma, spinto da manie di grandezza, con sua moglie, archetipo di cupidigia. Cecilia, alias Tanaquilla, da nobile Etrusca di classe sacerdotale per le sue qualità paranormali conquistò il rispetto dei Romani, diventando una delle donne più influenti dell’Urbe, inserendo anche il marito nella vita sociale e politica.

 

Un giorno, Tanaquilla fu vista da suo marito filare una toga rossa, prerogativa dei regnanti. La donna impegnata a filare, non conferì parola al marito, il quale incuriosito si chiedeva a chi potesse servire una toga rossa. Lucumone, alias Traquinio Prisco, bonaccione, cortese, affabile, capace di slanci d’altruismo anche verso gente del più basso ceto sociale, conquistò la benevolenza del popolo romano. Del suo bel fare ebbe a saperne il re, il quale, affascinato dalla sua personalità lo inserì nella cerchia dei suoi amici più intimi. Poi, ci fu la mossa vincente, l’idea che cambierà la vita del lungimirante Lucius e di sua moglie Tanaquilla, mettendo nelle mani del re Anco Marzio tutti i suoi averi. Oltre che suo miglior amico, divenne anche tutore e consigliere dei suoi figli, diventando per il re, il più stimato di tutti. La gratitudine del re fu così grande che lo adottò anche come figlio maggiore e poiché già in età avanzata, avendo figli troppo piccoli per succedergli, lo fece il suo vero successore.

 

Nel giorno in cui Tarquino doveva declamare un discorso al Senato, come figlio maggiore del deceduto re Anco Marzio, allontanò i suoi piccoli fratellastri nel bosco per una battuta di caccia. In Senato, Lucio cominciò una requisitoria pro domo sua. Per paura che i senatori si stupissero alla proposta della sua candidatura, con un eloquente discorso menzionò che Roma era già stata governata da altri re stranieri prima di lui, come Tito Tazio, sia pure con Romolo, da Numa Pompilio e allo stesso Anco Marzio. Poi, indugiò sull’assimilazione dei sui costumi Romani, inculcati dal defunto re Anco Marzio, suo maestro.

 

“La mia sottomissione e la mia devozione alla persona del re, non sono state seconde a quelle di nessun altro e posso dire, senza timore di smentite che per quanto riguarda la generosità verso il prossimo, solo Anco è stato più magnanimo di me. Se mi offrite la corona, governerò con saggezza. Non sono stato adottato dal re come figlio maggiore?”

 

Il discorso non faceva una grinza tanto che il popolo Romano lo elesse e il senato approvò. Fu così che Lucumone, figlio del greco Demarato, indossò la toga rossa filata dalla moglie Tanaquilla, diventando il quinto re di Roma, con il nome di Tarquinio Prisco. La storia di Roma, sin dall’inizio è piena di Etruschi. Tra i patres ce n’erano molti che erano stati aiutanti di Romolo nel costruire la città. Il rapporto fra i due popoli fu sempre stretto. Il nome Tarquinio, oltre a ricordare Tarquinia, la sua città di provenienza, ci ricorda anche la parola Tarch che in Etrusco significa dominazione.

 

Lucio Tarquinio era un ragazzo ricco e spendaccione, fra gente povera e spilorcia. Aveva studiato matematica, filosofia e geografia, era elegante e diplomatico, in una società d’ignoranti. Delle sue qualità, Floro diceva che riuniva il genio Greco, con le qualità italiche. Le famiglie Etrusche, pur potenti e ricche, erano la minoranza, quindi videro in lui l’uomo del riscatto, dopo due re latini e due sabini. Lucio riuscì a confermare i suoi buoni propositi, consolidando il regno ed estendendo il dominio in tutto il Lazio. Nominò cento nuovi senatori, i quali gli furono devoti. La sua prima vittoria bellica fu contro i Latini, conquistando la città di Apiole, nelle vicinanze di Albano, dalla quale ricavò un bottino cosi cospicuo che indisse i giochi più ricchi che erano mai stati celebrati a Roma. Lo spazio scelto per i festeggiamenti fu quello del Circo Massimo. I senatori e i cavalieri furono collocati in palchi di riguardo, alti tre metri e mezzo, chiamati Fori. La riuscita della festa fu totale, con lottatori arrivati apposta dall’Etruria e gare di equitazione. La festa fu ripetuta ogni anno con il nome di Giochi Romani o Giochi Magni. Dopo il circo, il re concesse ai Romani del terreno per la costruzione di portici e botteghe, decretando la nascita del Foro che divenne il centro nevralgico di Roma. Durante il suo regno dispose numerose altre opere, cambiando l’aspetto dell’Urbe. Lastricò numerose strade, ornò con statue il Circo Massimo, sistemò la cinta muraria, bonificò la zona acquitrinosa tra il Palatino e il Campidoglio con la Cloaca Maxima, una rete fognaria composta di canali a cielo aperto che scaricavano le acque reflue nel Tevere. I quartieri cominciarono a definirsi e le putride capanne furono sostituite con vere a proprie costruzioni, con tetto e finestre. La casa nobiliare romana fu costruita come quella etrusca, con il giardino e la vasca al centro, per ricevere l’acqua piovana e le colonne attorno. Le stanze da letto erano al piano superiore. Fu usato il triclinio e le case si arricchirono di mobilio e di suppellettili.

 

Tarquinio Prisco dette anche sembianze agli dei, costruendo statue e templi a loro dedicati, poiché sino ad allora erano spiriti con fattezze indefinite. Costruì un tempio dedicato a Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, rappresentato con fattezze umane, dalla virilità e forza superiore che con Giunone e Minerva, costituiva la nuova triade capitolina, sostituendo quella arcaica composta da Giove, Quirino e Marte. Dall’Etruria arrivarono molti artigiani che insegnarono vari mestiere ad apprendisti, migliorando la qualità di vita degli abitanti. Con le vittorie militari, nella società romana furono inseriti gli schiavi. Vanitosamente si fece costruire una reggia secondo i canoni Etruschi, con trono, scettro in mano e un elmo sulla capoccia. Tarquinio Prisco rimase sul trono per trentotto anni, quando per mano di un figlio di Anco Marzio fu assassinato. Dopo di lui la corona passò al figlio e poi al nipote, creando la dinastia dei Tarquini.

 

Gli Etruschi celebravano la morte di un nobile con lauti banchetti e spettacoli che duravano una settimana. La religione sabina, pelasgica, marsicana e altre, fecero posto a quella Greca, Etrusca e italica. Eliminò i riti religiosi praticati nelle case gentilizie, per trasferirli in templi pubblici. Molti templi Latini furono distrutti e in un Pantheon furono onorati sessanta culti, chiamato anche la stanza degli dei. Oltre alla religione cambiarono la moda e i costumi e dall’alto della loro cultura, Etruschi e Greci istruivano i giovani.

 

Il primo trionfo fu celebrato durante il regno di Tarquinio Prisco. Guerreggiò contro la Lega Latina e i Sabini stanziati fra Tevere e Aniene, per ottenere il controllo delle vie commerciali. Alle città che si arrendevano senza combattere gli veniva concessa la cittadinanza Romana, mentre quelle che si opponevano venivano saccheggiate e i cittadini fatti schiavi. Le popolazioni di Nomento, Fidene, Apiolae, Collazia, Corniculo ed altre furono deportate a Roma.

 

Tarquinio fermò la fortificazione delle mura, per un’improvvisa guerra scatenata dai Sabini che avevano oltrepassato il fiume Aniene. L’esercito Romano si schierò nella pianura adiacente per affrontarli, ma lo scontro non decretò vincitori. Durate la battaglia, avendo notato uno scarso apporto della cavalleria, Tarquino ebbe l’idea di aumentare le centurie e chiamarle con il proprio nome, oltre a quelle indette da Romolo, dei Ramnensi, Tiziensi e Luceri. L’Augure Atto Navio gli ricordò che per istituirli, Romolo chiese il consenso degli Dei. Egli avrebbe dovuto fare altrettanto, interpretando il volo degli uccelli. Il re stizzito chiese ad Atto: “Tu che sei un indovino, chiedi ai tuoi uccelli se è possibile realizzare quello che sto pensando in questo momento?” Atto si mise a osservare il cielo e dopo aver visto svolazzare degli stormi, senza esitare afferrò il pugnale del re e dopo aver sferrato un colpo magistrale, spaccò in due un macigno. Era quello che il re stava pensando. Tarquinio raddoppiò il numero dei cavalieri per centuria, portandoli a milleottocento, ma non quello delle centurie di cavalleria che restarono tre. Da quel momento gli Auguri acquisirono una tale reputazione che a Roma non si muoveva foglia senza il loro parere. Nessuna iniziativa partiva senza il loro bene placido e quello degli uccelli, s’intende. Atto Navio non morì come un uomo qualunque, ma scomparve nel nulla com’era accaduto a Romolo. L’amore che il popolo sentiva per lui e per le sue doti divinatorie gli valsero una statua di bronzo nel Foro, con la testa velata, la prima a Roma per un mortale. Atto Navio è stato l’augure più esperto e apprezzato della Roma antica.

 

Dopo aver rinvigorito la cavalleria, la battaglia contro i Sabini riprese. Un gruppo di audaci gettò nel fiume Aniene una grande quantità di legna e fascine. La massa non a contatto con l’acqua, bruciando e sospinto dalla corrente impattò con il ponte di legno costruito dai Sabini per entrare in territorio Romano, distruggendo il ponte e le barche. I Sabini entrarono in panico, facilitando la carneficina da parte dei Romani. Tarquinio inviò a Roma i prigionieri per recarsi in Sabina e concludere la faccenda. I Sabini rimasti organizzarono un’ultima stregua resistenza, ma alla fine si arresero. Ai Romani andò il territorio della città di Collazia e a governare l’agglomerato fu inviato il nipote di Tarquinio, Egerio, figlio del fratello Arunte. L’anno dopo Tarquinio riuscì a sconfiggere definitivamente i Latini Prischi. Furono conquistate le città di Corniculum, nei pressi di Montecelio. Ficulea Antica, tra la Nomentana e la Tiburtina. Camerium, a nordest di Roma. Nomentum, Mentana. Crustumerium, Settebagni. Medullia, Sant’Angelo Romano. Ameriola, Castelchiodato.

 

Nel Palazzo di Tarquinio Prisco viveva una serva chiamata Ocresia, la quale per il suo portamento regale era l’ancella favorita della regina Gaia Cecilia, alias Tanaquilla. Un giorno, recatasi al focolare dei Lari domestici, gli spiriti degli antenati protettori della casa e della famiglia, al suo cospetto la fiamma si ravvivò a dismisura facendo intravedere tra le fiamme l’immagine di un dio e una regina. Tanaquilla le disse di vestirsi come una sposa e di chiudersi nella sua stanza. Quella notte Ocrisia fu visitata da un dio e rimase incinta, dando poi, alla luce un bambino chiamato Servio Tullio, futuro re di Roma. Tanaquilla, nei mesi successivi si rese conto che la donna era in stato interessante. Se concepito in quella notte, il figlio della donna non poteva che essere figlio del dio Vulcano. Tanaquilla non parlò con Ocresia, ma con il marito insistette per adottare quel bimbo che aveva un futuro magnifico. Infatti, vedendo crescere il bambino, anche il re si rese conto che non era un tipo normale, anche se il bimbo fu chiamato Servio, generato da una serva. Una notte mentre il bimbo dormiva, sulla testa si attizzò una fiamma, confermando le sue origini divine. Il bambino crebbe nella corte rispettato da tutti e quando fu l’ora di prendere moglie, il sovrano su consiglio della moglie gli diede in sposa sua figlia Tarquinia.

 

Durante i suoi anni di regno, Tarquinio non aveva concesso nulla ai figli di Anco Marzio, i quali, al momento della sua incoronazione erano ancora dei bambini, ma nulla faceva pensare che quei marmocchi spodestati, uomini da un pezzo, stessero tramando contro di lui. Tarquinio, secondo il parere dei due aspiranti al trono, non aveva diritto a governare perché di origini Greche. In più, i due presagivano che dopo la morte di Tarquinio, il governo sarebbe toccato a Servio Tullio, il più amato dalla corte. I due non si davano pace che sul trono di Roma, nata per volere degli Dei, sedesse uno con tali ascendenti. Un vero disonore per i Romani. Tutta l’acredine accumulata in anni di silenzio avrebbe dovuto avere uno sfogo. Dovevano indirizzare la violenza sul re, poiché nel caso in cui avessero liquidato Servio, il re li avrebbe puniti e avrebbe fatto sposare sua figlia con un altro prescelto. Così, i due figli di Anco Marzio incaricarono due pastori tra i più nerboruti e rozzi, i quali muniti dei loro attrezzi di lavoro, accetta, coltello e bastone, avevano il compito di litigare davanti al Palazzo Reale. Dopo che le guardie intervennero, i due zotici pretesero la presenza del sovrano per dirimere la questione. Tarquinio, incuriosito, li fece entrare, ma fu subito fulminato da un colpo d’accetta sul capo sferrato da uno dei due pastori, i quali, rapidamente si dileguarono. Tarquinio fu adagiato sul letto agonizzante, mentre i Littori cercavano di individuare i due malavitosi. Tanaquilla ordinò di chiudere le porte del palazzo, allontanando dalla stanza i testimoni oculari del delitto, mentre una folla di persone faceva capannello in piazza. Ordinò alla servitù di portare il necessario per medicare la ferita, facendo pensare che il re potesse riprendersi, mentre il re era morto.

 

La regina chiamò Servio e gli fece giurare che avrebbe vendicato la morte del sovrano. “Servio, il regno è tuo. Affidati agli dei che tempo fa ti hanno avviato alla gloria. Non ti preoccupare, anche noi eravamo stranieri eppure siamo saliti al trono di Roma.” Poi, alla folla radunata sotto il palazzo disse di stare calmi perché il re aveva ripreso conoscenza e la ferita era stata medicata. Poi, disse che il re invitava il popolo a seguire le disposizioni di Servio, in attesa della sua guarigione. Per qualche tempo la regina occultò la morte del re, dando il tempo a Servio Tullio di accomodarsi sul trono. Tempo dopo, con una delle migliori sceneggiate che la storia ricordi, nella reggia echeggiarono i pianti più strazianti e disperati di tutti i tempi che annunciavano la morte del sovrano. Intanto Servio Tullio aveva già saldamente conquistato il trono e aveva una scorta personale a difenderlo. Era il 578 a.C. e Servio Tullio fu il primo re a essere eletto senza il consenso popolare, ma con l’assenso del senato. I figli di Anco Marzio che piangevano la mancata ascesa al trono, sconcertati per lo sviluppo della vicenda, furono esiliati nel vicino popolo dei Volsci.

 

 

 




 

 

 

Servio Tullio L’Opportunista

 

 

Servio Tullio, Servius Tullius, fu il sesto re di Roma, regnando dal 578 a.C., sino alla sua morte, nel 539 a.C.. Si disconosce la sua data di nascita. Di padre ignoto e figlio di una schiava prigioniera di guerra di nobili origini, deve la sua fortuna a Tanaquilla, colta e ambiziosa moglie del re Tarquinio Prisco. Alla morte del marito, Tanaquilla o Gaia Cecilia lo fece re con l’inganno, ma con tanta abilità da sembrare legittimo. Il sesto re di Roma saliva al trono senza il consenso del popolo e col patto di cedere la carica al primogenito orfano di Tarquinio, non appena questi avesse raggiunto la maggiore età. Ma, dimentico della promessa fatta a Tanaquilla, Servio regnò con saggezza e lungimiranza per quarantatré anni, ma la promessa non mantenuta scatenò la rabbia di Tarquinio, poi detto il Superbo, il quale alla fine seppe vendicarsi.  

 

Servio Tullio per ingraziarsi il popolo fece numerose riforme sociali a loro favore. Fece distribuire le terre conquistate in guerra tra i ceti poveri, alimentando la voglia di combattere del popolo. Censì il popolo e i loro beni per tassare tutti equamente e riordinò la leva militare. La plebe fu molto contenta dei suoi emendamenti, ma i patrizi mugugnavano e nell’ombra tramavano contro di lui. Così, Servio Tullio radunò il popolo nella valle del Foro, minacciando d’abbandonare il potere. La strategia ebbe i suoi frutti, poiché il popolo lo acclamò e la faccenda fu accantonata. Dopo l’acclamazione a re, nessuno poteva rivendicare il trono di Servio Tullio.

 

Quando Tarquinio Prisco conquistò Corniculum, Ocrisia, moglie incinta del padre di Servio Tullio, re della cittadina e morto in battaglia, fu fatta schiava e concubina. Ocrisia aveva un corpo giunonico, seni e labbra sensuali, da incantare mortali e dei. L’affidò a sua moglie Tanaquilla, la quale resosi conto della sua regalità, le concesse vari privilegi. Ocrisia per dare un futuro migliore a suo figlio Servio, cosi chiamato per essere nato in servitù, lo mise sotto la protezione di Tanaquilla che lo prese a ben volere. Una notte, mentre a Palazzo tutti dormivano, si alzarono delle grida così forti da svegliare anche i sovrani. Il bambino, mentre dormiva era stato visto con la testa avvolta dalle fiamme. Quando un servo stava per spegnere l’incendio con dell’acqua, giunse la regina Tanaquilla che gli intimò di fermarsi. Poi, il bimbo si svegliò e le fiamme scomparvero. Gaia Cecilia disse al marito che quell’infante avrebbe avuto un futuro radioso e sarebbe stato il puntello della loro vecchiaia, facendolo il prediletto del palazzo. Fu educato al meglio e nel crescere si mostrava simpatico e ingegnoso, tanto che il re gli concesse la mano di sua figlia Tarquinia.  

 

Servio Tullio fece costruire le mura chiamate Serviane che furono le prime vere mura della città, anche ampliando e rafforzando le vecchie mura in pietra costruite da Tarquinio Prisco. Queste mura costruite con grossi blocchi tufacei, a tratti ancora visibili nel centro storico di Roma, furono usate sino alla fine dell’impero Romano, quando sotto Aureliano furono ampliate e migliorate, anche se nel 390 a.C., furono violate da Brenno, nel saccheggio dell’Urbe. Dopo che i barbari lasciarono la città, le mura furono riassettate. Roma, ora era difesa da alte e spesse mura, situate sopra il ciglio dei colli e rupi scoscese, mentre dall’altra parte della città c’era il Tevere a fare da baluardo a possibili incursioni nemiche. L’altezza media si aggirava attorno ai dieci metri, mentre di larghezza arrivava a quattro metri. Le porte erano diciassette. I luoghi ritenuti meno sicuri erano stati protetti con fossati larghi più di cento piedi e profondi trenta. Restaurate più volte nei secoli, in epoca augustea il materiale fu usato per altre costruzioni, non avendo più alcun senso difendere la città.

 


Servio aggiunse alla città il colle Viminale e l’Esquilino e quella parte del Quirinale che non era stata rinchiusa nel primo recinto di Numa, completando la lista dei sette colli. Palatino, Capitolino, Aventino, Quirinale, Viminale, Esquilino e Celio. Escluso dalla lista è il Gianicolo, considerato solo una fortezza. Servio Tullio dovette guerreggiare contro le città etrusche di Veio, Caere e Tarquinia. La guerra durò venti anni, con esiti alterni, ma alla fine Roma riuscì a vincere, ampliando il suo territorio verso nord. Attorno al 540 a.C., sull’Aventino fu costruito il tempio di Diana e nel Foro Boario, il Tempio di Mater Matuta e il Tempio della Dea Fortuna, per fare di Roma il centro religioso delle popolazioni del Lazio. Servio Tullio era devoto della dea Fors Fortunae, la quale secondo il suo pensare era stata quella che lo aveva protetto e voluto re di Roma. Nel santuario a lei dedicato c’era una statua coperta con un velo che nessuno poteva scoprire e nessuno sapeva chi fosse il personaggio raffigurato, anche se per il popolo c’erano due possibilità. O Servio o la dea Fortuna. 

Servio Tullio suddivise i cittadini in cinque grandi classi sociali e indisse un censimento, verificando che il suo popolo era costituito da 80.000 Romani adulti. Chi più aveva, più tasse pagava. Le divisioni che prima si erano incentrate sulla razza, ora si spostarono sul patrimonio. La razza, la discendenza non contava più. Cessarono i dissidi tra le varie etnie che popolavano Roma e la gente s’accomunava a quelle con lo stesso patrimonio economico. Servio Tullio permise alla gente più umile di poter accedere alle più alte cariche dello Stato e per questo chiamato il re della plebe.

 

I cittadini censiti che risultarono possedere più di 100.000 assi, fecero parte delle ottanta centurie di prima classe; quaranta chiamati seniors e quaranta chiamati iuniors. I seniors avevano il compito di difendere la città, mentre gli iuniors di combattere in battaglia. Ognuno doveva procurarsi l’armatura adeguata alla loro classe che consisteva nell’elmo, scudo rotondo, gambali, corazza, lancia e spada, tutto rigorosamente in metallo. Da questa classe provenivano i fabrum, i quali esclusi dal servizio attivo, provvedevano alla costruzione delle armi. Alla seconda classe appartenevano i cittadini che avevano proprietà dal valore tra 100.000 e 75.000 assi. Con questa classe furono composte venti centurie, dieci di seniors e dieci di iuniors, equipaggiati come la prima classe, tranne la corazza. La terza classe era formata da cittadini con un censo tra 75.000 e 50.000 assi, organizzata in venti centurie, dieci di seniors e dieci di iuniors, i quali possedevano le stesse armi della seconda classe, escluso i gambali. La quarta classe era formata da cittadini con un censo tra 50.000 e 25.000 assi. Questa classe era organizzata come la terza, ma possedevano solo bastone e giavellotto. Hastam et verutum. La quinta classe, la più numerosa, formò trenta centurie e si componeva di uomini con un patrimonio tra 25.000 e 10.000 assi. Questi ultimi erano armati con fionda e pietre. Alla fine c’erano i trombettieri e suonatori di corno. Chi era al di sotto dei 10.000 assi, era esentato dalla leva militare. Poi reclutò dodici centurie di cavalieri attinti dall’aristocrazia, portando il numero totale a diciotto, delle quali tre furono istituite da Romolo e tre da Tarquino Prisco, conservando lo stesso nome. I cavalli acquistati con denaro pubblico erano mantenuti dalla tassa sul celibato delle donne ricche. I ricchi, quindi, non come avveniva prima, pagavano più dei poveri, ma ebbero il privilegio di essere i soli elettori, poiché solo quelli della prima classe e i cavalieri avevano tale diritto. In caso di disaccordi, per dirimere la questione, si dava il voto alla seconda classe e per i trasgressori il re decretò la pena di morte. Per celebrare l’evento davanti all’esercito, si procedette al sacrificio di un toro, una pecora e un maiale, chiamato sacrificio espiatorio di chiusura dell’atto del censo. Fabio Pittore, storico contemporaneo, afferma che quel giorno davanti al re erano schierati ottantamila soldati.

 

Nelle campagne fuori Quire, nacque una vitellina dalle dimensioni eccezionali. Gli indovini predissero che chi l’avesse sacrificata alla Dea Diana avrebbe garantito il dominio della sua città sulle altre. Lo zotico Sabino che nei cui possedimenti c’era stato il lieto evento, arrivò a Roma con l’animale ed entrò nel tempio di Diana per sacrificarla. Il custode sacerdote disse al contadino che per sacrificare l’animale si sarebbe dovuto prima purificare nelle acque del Tevere. L’uomo oltre che grossolano, risultò essere anche un credulone, poiché fu alle acque del fiume lasciando l’animale nel tempio. Al ritorno vide che la vitella era stata immolata dallo scaltro sacerdote. Questa bravata fu molto apprezzata dal re e dal popolo e le corna della giovenca adornarono il tempio per vari secoli.

 

Servio Tullio dovrà arginare il malcontento dei figli di Tarquinio Prisco, Lucio Tarquino e Arunte, i quali aspiravano al potere che spettava loro di diritto. Ma Servio che non ne voleva sapere di cedere lo scettro, per tenerli buoni ebbe la malaugurata idea di dare loro in spose le sue figlie, Tullia Maggiore e Tullia Minore, avute nel matrimonio con Tarquinia, figlia di Tarquinio Prisco. Tullia Maggiore sposò Lucio, mentre Tullia Minore sposò Arunte. I matrimoni non fecero altro che acuire la situazione già incandescente, soprattutto per parte di Lucio Tarquinio, noto per la sua ambizione sfrenata e una voglia di riscatto nei confronti di Servio Tullio. Le coppie erano in antitesi, poiché Tullia Maggiore e Arunte erano buoni, mentre i loro rispettivi consorti erano diabolicamente affamati di potere.

 

Fremeva la più malvagia delle sorelle, nel vedere il contrasto caratteriale che c’era tra il suo rammollito marito e suo cognato, da lei ritenuto un vero uomo. I due cominciarono a frequentarsi. Similia cum similibus. Il loro piano era eliminare i loro coniugi, per sposarsi e affondare la lama anche nel corpo del re. I due eliminarono prima Arunte e poi Tullia Minore. Nessuno scoprì la congiura e i due convolarono a nozze. A quel punto, Tullia spingeva il marito a recitare l’atto finale. Bisognava eliminare il sovrano, nonché suo padre. Lucio Tarquinio cercò di conquistare i senatori, con regali e promesse e quando sentì che l’ora era giunta si presentò in senato con una banda di gaglioffi armati. Si sedette sullo scranno reale e cominciò a parlare male di Servio Tullio. Servum servaque natu. Servio è nato servo.

 

“Dopo la morte ignobile di mio padre, non ha consentito l’interregno, come da sempre avviene, non ha convocato i Comizi e non ha ottenuto il voto popolare e la ratifica del senato, salendo al trono grazie alle mosse di un’astuta donna. D’umili origini, ha sempre favorito i suoi pari, togliendo le terre a eminenti personaggi, per darle alla plebe. Ha istituito il censo per esporre all’invidia popolare i più abbienti. Ha elargito ai poveri che nulla apportano alla società.”

 

Avvertito, Servio Tullio si recò in senato scortato dai Littori, riuscendo ad ascoltare la fine di quel diffamante discorso. “Cosa dici Tarquinio? Come ti permetti di sedere sul mio trono?” Lucio rispose con molta arroganza che quello era il suo trono, perché una volta fu occupato da suo padre e non poteva spettare a uno schiavo. Lucio Tarquino afferrò Tullio, lo sollevò da terra e lo scaraventò giù per le scale della Curia. Quando Tullio sanguinante si rialzò, fu raggiunto da una gragnola di pugnalate sferrate dagli scagnozzi di Lucio. Tullia Minore, arrivata con un cocchio al Foro, incontrò il marito, il quale la invitò a togliersi di mezzo dal quel putiferio. Tornando a casa, salendo l’Esquilino, il cocchiere inchiodò la biga. In terra giaceva morente, suo padre. Inferocita la ragazza strappò le redini dalle mani del cocchiere e spinse i cavalli sul corpo del padre moribondo, ripetendo l’azione più volte. Alla fine si ritrovò sporca di schizzi di sangue del padre. Il luogo del misfatto fu chiamato Vicus Sceleratus. Era il 539 a.C.. Servio Tullio moriva dopo quarantaquattro anni d’ineguagliabile regno. Egli avrebbe voluto affermare la Repubblica, ma tale privilegio non gli fu concesso.

 


Testo tratto dal libro sull'Impero Romano: 

"Voci dall'Antica Roma"







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