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Lucio Tarquinio il Superbo
Lucio Tarquinio il Superbo, Lucius Tarquinius Superbus, morì nel 496 a.C.,
dopo aver regnato dal 534 al 509 a.C.. Sconosciuta è la sua data di
nascita. Figlio di Tarquinio Prisco, fu il settimo e ultimo re di Roma. Le sue due
spose furono le due figlie di Servio Tullio. Tullia Maggiore e Tullia Minore,
dalla quale ebbe i figli Tito, Arrunte e Sesto. Tarquinio
governò con la spregiudicatezza e la crudeltà dei tiranni, tanto che i Romani
lo apostrofarono il Superbo. Per la lungimiranza di Servio Tullo, in città si respirava
aria di democrazia, ma il nuovo re cambiò le
regole. Chi non era con lui, era contro di lui. La sua vita fu tanto violenta
che tutti i suoi nemici furono passati per le armi.
La
guerra contro Gabi, a venti chilometri da Roma, sulla Via Prenestina, si
protraeva senza esito, spingendoli a ricorre all’inganno, espediente poco
comune per i Romani, abituati a combattere in campo aperto con lealtà. Abbandonata
la pugna, fingendo d’essere interessato a opere ingegneristiche a Roma, Sesto,
il più giovane dei suoi tre figli, cercò di farsi accettare tra gli abitanti di
Gabi, accampando forti dissapori con il padre. Accolto con giustificata
diffidenza, il ragazzo con un racconto verosimile, cercò d’entrare nelle grazie
degli abitanti di quella cittadina. “Mio padre è un uomo spietato anche con i
suoi figli. Dice che gli procuriamo fastidi e ci vuole eleminare, cosi come ha
fatto con i patres. Io sono riuscito a scampare e ho pensato che nessun posto è
più sicuro che la città dei suoi nemici. Quanto a voi, al momento propizio
attaccherà ancora. Se da voi non c’è posto per un figlio perseguitato da un
padre, percorrerò l’intero Lazio, mi rivolgerò agli Equi, ai Volsci, agli
Ernici, fino a quando non mi imbatterò in gente disposta a proteggere un figlio
dalle torture e dalle crudeltà di un padre. Chi mi accoglierà troverà un uomo
determinato a combattere con rabbia il più tirannico dei re e il più prepotente
dei popoli.” Con questo convincente discorso, i Gabini lo invitarono a restare
e persino ammesso alle riunioni del Gran Consiglio di Gabi. Nelle questioni
interne era sempre d’accordo con tutti, mentre quando si parlava di guerra
lanciava sempre il suo guanto di sfida a Roma, proponendosi alla guida
dell’esercito di Gabi, poiché si sentiva un grande stratega. Conoscendo entrambi
gli eserciti, sosteneva di avere in mente un piano infallibile per sconfiggere
il suo odiato padre.
Con
una fastidiosa guerriglia cominciò a devastare piccoli territori dei Romani.
Quelle azioni gli fecero acquistare quella poca fiducia che ancora gli mancava,
tanto da essere nominato generale supremo delle forze armate di Gabi. Sesto e
le sue truppe ritornavano sempre vincitori, come previsto dal copione, tanto
che il giovane era diventato un idolo sempre più osannato dalle truppe. Quando
sentì di avere tutta la fiducia, Sesto inviò a Roma un suo galoppino per
chiedere lumi al padre sul da farsi. Il re si mostrò riluttante poiché non si
fidava del messaggero. Nel giardino del palazzo il re passeggiava silenzioso.
Poi, senza fiatare, cominciò a decapitare i fiori che aveva a portata di mano a
colpi di spada. Messaggio criptico per il figlio. La staffetta stanca
d’attendere senza ricevere risposta, se ne tornò dal suo padrone, raccontando
quello che aveva visto e Sesto ci mise del tempo per capire. Il messaggio
sottintendeva che bisognava eleminare tutti i loro capi. Alcuni furono esiliati
con false accuse, mentre altri furono uccisi segretamente. Alla fine, i Gabini
rimasti senza uomini eminenti, si consegnarono spontaneamente ai Romani.
In
campo di battaglia Tarquinio fu valoroso e grande stratega. La sua prima guerra
fu contro i Volsci, abitanti della zona Pontina. Le loro città erano Velletri,
Atina, Frosinone, Sora, Cassino e Anzio capitale. Militarmente all’altezza dei Romani,
furono sottomessi solo dopo due secoli di aspre battaglie. Con un esercito più
forte e numeroso, Tarquinio riuscì a batterli nella battaglia nei pressi di
Suessa Pomezia, ricavandone quattrocento talenti d’oro e d’argento, con i quali
edificò sul
Campidoglio un tempio agli dei più importanti: Giove, sua moglie Giunone e la
figlia Minerva che soppiantavano la vecchia triade composta da Giove, Marte e
Quirino. Tarquinio voleva un monumento
colossale che potesse durare in eterno. Ma, per realizzare un’opera gigantesca
avrebbe dovuto radere al suolo tutto, poiché il Campidoglio era già colmo di
templi di tutte le fattezze ed epoche e gli auspici gli ordinarono di conservare
il tempio al dio Termine, poiché assicurava stabilità all’Urbe. Durante gli scavi per le fondamenta del
tempio, fu trovata una testa di pietra. “Caput humanum
integra facie.” Il
ritrovamento destò molto scalpore, tanto che furono interpellati gli Aruspici Etruschi,
i quali non svelarono l’interpretazione del rinvenimento, giacché c’erano notizie
felici per i Romani, ma non per i popoli vicini, dei quali anch’essi facevano
parte. Poi, mettendo alle strette il figlio di un aruspice, si svelò l’arcano. Roma
sarebbe diventata Caput Mundi, capitale del mondo. Per questo il tempio a Giove
fu chiamato anche Capitolino. Per la
costruzione del tempio, insieme alla manodopera locale furono chiamati tecnici
e operai dall’Etruria e da altri popoli vicini. Poi, per moltiplicare l’odio nei suoi
confronti, pensò di non pagare chi avevano trasportato le pietre, mettendo
d’accordo per la prima volta i patrizi e i plebei, sul fatto che il re era
proprio un delinquente. Spinto dalla profezia e dalle spese per la costruzione
del tempio, Tarquinio attaccava briga con i suoi vicini, sconfiggendoli e
allargando i suoi territori.
Tarquinio non aveva rivali. Aveva fatto uccidere sua
sorella e uno dei suoi figli, per regnare incontrastato. Ma, le sue notti erano
costellate di sogni malefici, come quello del serpente che uscendo da una
colonna del palazzo lo mordeva a morte. Non soddisfatto degli indovini di corte
che interpretarono il sogno come un’avvisaglia di morte tramite una bestia
feroce, dopo aver fatto perlustrare il Palazzo e assicuratosi che non ve ne
fossero, inviò i suoi figli Tito e Arrunte a Delfi dall’oracolo di Apollo, il
più influente e importante della storia antica, accompagnati dal nipote Lucio
Giunio, secondo lui una specie di deficiente. Il nipote era il figlio della
sorella che aveva fatto uccidere, con il suo primogenito, soprannominato Bruto
per la sua presunta imbecillità. Intanto i nefasti presagi aumentavano, poiché
un giorno il re vide un avvoltoio rapire degli aquilotti dal loro nido. L’aquila
era il simbolo di Roma. Quando i tre arrivarono in Grecia, al tempio di Apollo,
dopo aver offerto doni al dio, furono ricevuti dalla Sibilla Delfica. L’oro e i
gioielli portati dai due figli del re, furono adeguati alla loro condizione,
mentre Bruto regalò tra la derisione dei suoi cugini quello che apparentemente
era un misero bastone, ma la sua cavità era colmo d’oro. Dopo che fu formulata
la fatidica domanda, su quanto sarebbe durato il regno di Tarquinio, la Sibilla
rispose cripticamente che il suo regno sarebbe caduto quando la bestia avrebbe
parlato con voce umana. Poi, i ragazzi vollero sapere chi sarebbe stato il suo
successore e lei rispose che sarebbe stato colui il quale per primo avesse
baciato la madre. Tito e Arrunte, una volta arrivati a Roma, decisero di non
dire nulla al terzo fratello Sisto e sfruttare a loro vantaggio quella
profezia. La prima cosa che fecero fu quella di gettarsi nelle braccia della
madre e baciarla. Bruto, invece, preso in giro dai cugini per una falsa caduta in
cui era incorso all’entrata nella città, interpretò in maniera diversa la
profezia. Quando per la caduta fu steso al suolo e i due cugini ridevano di
lui, Bruto baciò la madre terra. I due figli di Tarquinio riportarono il
risultato della loro spedizione e il padre tirò un sospiro di sollievo, poiché
era molto improbabile secondo il suo pensare che una bestia parlasse con voce
umana. Ma la bestia era Bruto, così catalogato dallo zio. Il ragazzo per anni
se n’era stato buono per paura di ritorsioni dello zio Tarquinio, il quale
aveva già fatto uccidere sua madre e suo fratello. Se ne stava in disparte
aspettando paziente il suo momento. Lui era la bestia e l’uomo da temere.
Un giorno la Sibilla Cumana, la cui fama
aveva solcato i mari più lontani, si presentò in incognito al cospetto del
Superbo. Vecchia e cadente, con una coperta che le copriva il capo, le spalle e
parte del corpo. La Sibilla era la profetessa che captava il pensiero di Apollo,
trascrivendolo su foglie di palme, le quali disperse al vento se ne perdeva il
significato. La Sibilla gli chiese se volesse comprare i suoi nove libri sacri
che aveva con sé, nei quali erano contenute le profezie divine. Quando la
sacerdotessa rivelò il prezzo, il re scoppiò in una fragorosa risata e in un
gesto eloquente d’allontanamento. A quel punto la Sibilla buttò nel fuoco tre
dei suoi nove libri, ripetendo al sovrano la stessa proposta, ma chiedendo la
stessa somma di denaro. Il re stizzito e stupito, rifiutò ancora e lei buttò
nel fuoco altri tre libri. Poi, la sacerdotessa, con una voce ammiccante, conferì
la domanda: “Sei sicuro di non volerli comprare?” La Sibilla, col suo fare,
aveva sconcertato Tarquinio, il quale alla fine acconsentì ad acquistare i tre
libri rimasti, per l’invariata elevata somma. Dopo questa trattativa, la
sacerdotessa non fu mai più vista. I Libri Sibillini furono affidati a due
uomini che ebbero il compito di codificarli. Erano i duumviri, i quali, in
seguito divennero dieci e furono chiamati decemviri. I Libri Sacri furono
custoditi nel tempio di Giove Capitolino, ma andarono perduti in un incendio.
Ottaviano Augusto fece trascrivere i pochi testi rimasti, in memoria dei
decemviri, nel tempio di Apollo Palatino. Poi, il generale Stilicone decise di
bruciarli, per impedire che le profezie riportate mettessero in pericolo il suo
governo.
Un
giorno Tarquinio convocò i nobili Latini nel bosco dedicato alla Dea Ferentina,
nelle vicinanze di Marino, con la scusa di dover trattare con loro importanti
incombenze di comune interesse. I Latini, al mattino, si presentarono in gran
numero. Ma, per tutta la giornata, di Tarquinio neanche il lezzo. Turno Erdonio
di Aricia, spazientito più degli altri, stava sputando sentenze contro il re
assente. “Non sono meravigliato se a Roma l’hanno soprannominato il Superbo. Ma
si può essere più arroganti di uno che si prende gioco dell’intero popolo
Latino? Invitare i capi, in un posto lontano e non arrivare alla riunione da
lui convocata? Vuole mettere alla prova la nostra pazienza e poi, costatata la
nostra inettitudine, ci sottometterà. Se i Romani gli concedono di governare
dopo aver perpetrato orrendi delitti, perché anche noi dovremmo sopportarlo? Ma
se i Romani ricevono condanne a morte, esili, confische dei beni, quale speranza
abbiamo noi di essere trattati meglio? Date retta a me, troniamocene a casa.” Mentre
l’esasperato Erdonio finiva la sua predica e il sole tramontava, Tarquinio apparve
ammutolendo la platea. Invitato a spiegare le ragioni del ritardo, si scusò
dicendo che era stato occupato a dirimere una diatriba di vitale importanza tra
un padre e un figlio. Turno ancora più incazzato di prima, gli rispose che non
c’era faccenda più facile da risolvere, poiché un figlio deve ascoltare il
padre senza fiatare e le sue scuse erano inadatte. La tarda ora fece slittare il
convegno al giorno seguente. Turno fulminò Tarquinio con uno sguardo intimidente
e il re poiché non poteva eliminarlo con una delle sue repentine condanne,
avvicinò alcuni dei suoi compatrioti contrari alla sua fazione, ai quali disse
di tornare di nascosto ad Aricia e introdurre furtivamente pugnali e spade
nella casa di Turno. All’alba Tarquino si presentò davanti all’assemblea Latina
con una gran notizia, adducendo che il ritardo del giorno prima era da considerarsi
miracoloso, giacché Turno quel giorno si sarebbe assicurato il potere
eliminando i capi Latini e il re di Roma, in quanto i suoi uomini, con armi in
pugno, avrebbero fatto una strage. Per quello Turno era molto arrabbiato per il
ritardo del re. Prova delle accuse erano le armi nascoste in casa sua. Dopo un
sopralluogo nella casa di Turno e il riscontro della tesi di Tarquinio, Turno
fu condannato a morte, sommerso nell’acqua con una cesta di pietre sopra la
testa. Tarquinio riconvocò l’assemblea e dopo averli elogiati per come si erano
comportati nella faccenda di Turno, disse che avrebbe voluto stipulare un nuovo
trattato, poiché il precedente stipulato ai tempi di Tullio Ostilio era troppo
vecchio. Tarquinio proponeva d’annettere i loro territori a quelli di Roma,
cosi da escludere la devastazione delle loro città, con la sola disposizione
che i giovani Latini avrebbero dovuto combattere per Roma.
Lo stupro di Lucrezia
Dopo che
Tarquinio aveva prosciugato le casse dello Stato per la costruzione del tempio
a Giove, stava pensando alla prossima preda per rimpinguarle. La scelta cadde
sui Rutuli, popolo antico e ricco, così chiamati per via dei loro capelli rossi. A capo della
spedizione fu messo suo figlio Sisto Tarquinio e il nipote Lucio Tarquinio
Collatino. Ardea, la capitale, fu presa
d’assalto. Per gli scarsi esiti la città fu assediata, costruendo una trincea attorno
e aspettando la capitolazione per fame. Nell’attesa, un giorno, nella tenda di
Sesto, figlio del Superbo, con suo cugino Tarquinio Collatino e altri nobili,
iniziarono a parlare delle virtù delle proprie mogli. Collatino assicurava che la sua Lucrezia
fosse insuperabile in fedeltà, ma Sesto lo scherniva, asserendo il contrario.
Sesto tracotante come il padre, in breve trasformò le chiacchiere in una seria
disputa. Qualis pater, talis filis. Così, decisero
di recarsi a Roma e controllare di persona. Dopo una cavalcata di alcune ore i
ragazzi arrivarono a Roma. Poiché a pensare male ci si azzecca, i ragazzi trovarono
le loro mogli a godere e miagolare in festini erotici. Soltanto Lucrezia, la
moglie di Collatino, fu trovata intenta a
filare la lana sull’uscio della sua casa. La donna, dopo
l’assenso del marito, con gentilezza li invitò a cenare. Poi, tutti insieme
partirono per il campo militare. Lucrezia era una donna virtuosa e per non essersi macchiata
di nessun misfatto, come le altre facili congiunte, doveva giacere con lui.
Questo fu il pensiero che fece quel delinquente di Sesto Tarquinio, non avendo
digerito che la moglie di suo cugino non aveva cornificato suo marito e poi,
Lucrezia era una stanga di ragazza, bella e nobile. Aveva scuri e lunghi
capelli, labbra tumide e sensuali, curve a ripetizione, per la gioia
dell’eccitato Sesto.
Dopo qualche
giorno, al limite della resistenza ormonale, Sesto lasciò il campo all’insaputa
di tutti e con un suo sgherro si recò da Lucrezia. Fu accolto con la solita
gentilezza e dopo aver cenato nella sua casa fu ospitato anche per la notte. Poi,
a notte inoltrata, con la spada in pugno entrò furtivamente nella stanza di
Lucrezia, puntandole
l’arma contro il petto. “Non fiatare.
Sono Sesto. Una sola parola e ti uccido.” Poi, Sesto cominciò ad adularla e
spiegare la sua devozione verso la donna più virtuosa, per entrare nelle sue
grazie e sedurla. Senza cavare un ragno dal buco, dopo l’arte della seduzione usò
quella delle minacce. Lucrezia rimase impassibile e irremovibile, ma se non accettava di giacere con lui
l’avrebbe ammazzata. Poi, gli avrebbe gettato uno schiavo morto ai suoi piedi,
dichiarando che era stato testimone di un adulterio, giustificando cosi il suo
gesto omicida. Queste erano le minacce di Sesto. La memoria di Lucrezia sarebbe
stata macchiata per sempre. Se al contrario avesse accettato, l’avrebbe sposata
per farla regina, giacché egli era figlio di un re. Lucrezia cedette al
ricatto, serbando voglia di vendetta.
Sesto Tarquinio
lasciò la casa di Lucrezia, contento per l’impresa appena realizzata. Il giorno
dopo, per pulire l’onta e il suo senso di sporchizia che sentiva addosso,
Lucrezia mandò a chiamare il padre e il marito per raccontare l’accaduto, per
quel desiderio irrefrenabile di sincerità che aveva dentro. Spurio Lucrezio
Tricipitino, il padre e Tarquinio Collatino, il marito, insieme con Lucio
Giunio Bruto e Publio Valerio, due amici incontrati nel tragitto, arrivarono al
cospetto di Lucrezia che giaceva rannicchiata sul suo letto in lacrime. Dopo ripetute
domande, cominciò a parlare. “Nel tuo letto, Collatino, ci sono vestigia della
presenza di un altro uomo, ma è stato violato il mio corpo, non la mia anima.
Lo proverà la mia morte, ma, giuratemi che punirete l’infame autore dello
stupro. Sesto Tarquinio la notte scorsa è venuto qua e ha ricambiato la mia
ospitalità, con ostilità. Armato e con la forza ha soddisfatto le sue voglie
abusando di me. Se siete veri uomini fate in modo che il sopruso a me fatale
sia funesto anche per lui.” Poi, Lucrezia tirò fuori il pugnale che teneva
nascosto sotto le vesti e si trafisse il cuore. Bruto estraendo il pugnale, tra
le grida di disperazione del padre e del marito, disse: “Su questo sangue,
giuro e chiamo voi numi celesti a testimoni che perseguiterò Lucio Tarquinio il
Superbo, la sua scellerata moglie e la sua stirpe con tutte le mie forze, con
la spada e con il fuoco, sino a ucciderli o a cacciarli da Roma e non
permetterò né a loro, né a nessuno, di regnare in futuro.”
I presenti,
sbalorditi dall’impeto dimostrato in quel frangente, si chiesero se il vero
Bruto fosse quello della sfida lanciata a un sovrano pericoloso e vendicativo o
il Bruto degli anni passati, tollerante e remissivo. Dopo che gli altri
giurarono sulle parole di Bruto, portarono il corpo di Lucrezia nel Foro di
Collazia, spiegando la morte di una giovane e assennata donna Romana. Dopo
aver messo alcune guardie all’uscita del Foro, per tema che qualcuno andasse a
riferire al re dell’imminente insurrezione, Lucio Giunio Bruto marciò verso
Ardea con un manipolo di sostenitori, per destituire il despota. Spurio
Lucrezio Tricipitino fu lasciato a Roma per controllare la situazione. Il seme della rivolta oramai era
germogliato e tutti, patrizi e plebei, in questa causa uniti, volevano
abbattere il tiranno. Dal gesto disperato di Lucrezia, nacque la ribellione dei Romani,
comandata da Lucio Giunio Bruto, figlio della sorella del re Tarquino il Superbo,
da lui trucidata.
Tarquinio
il Superbo in esilio
La
notizia della ribellione giunse rapidamente alle orecchie del Superbo, poiché
aveva costellato di spie la città. La profezia dell’Oracolo di Delfi si era
concretata. Trovandosi sul campo di battaglia, con un drappello di soldati a
lui fidi, si recò a Roma con l’intensione di reprimere la rivolta. Giunio Bruto,
informato dell’imminente arrivo del re, cambiò percorso per non incrociarlo. Quindi,
Bruto arrivò nel campo di battaglia di Ardea, accolto come un liberatore,
mentre Tarquinio arrivato a Roma fu cacciato a pietrate, dopo venticinque anni
di regno. Tarquinio riparò a Cere, in Etruria, con due dei suoi figli, mentre
Sesto, lo stupratore di Lucrezia, si rifugiò a Gabi dove fu trucidato. Era il
509 a.C.. Il prefetto di Roma, Spurio Lucrezio Tricipitino, attenendosi alle
disposizioni di Servio Tullio, convocò i Comizi Centuriati, i quali elessero
due Consoli. Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino. Non domo Tarquinio
cercò di riprendersi il potere, ma per Roma irreversibilmente era cominciata
l’era della Res Publica, dopo duecentoquarantaquattro anni di monarchia.
L’altro
console Lucio Tarquinio Collatino, a causa del nome non era tollerato dalla
popolazione. Con la conquistata libertà, dopo il giogo dei Tarquini, il popolo
non voleva neanche sentire nominare il loro nome, per paura di riperderla dopo
averne assaporato il delicato profumo. Anche Giunio Bruto era figlio di una
sorella del Superbo, ma la gente voleva eliminare solo Tarquinio Collatino.
Giunio Bruto convocò l’Assemblea e parlò: “Non dobbiamo permettere il restauro
della monarchia, senza tralasciare i minimi particolari. Mi dispiace alludere a
qualcuno di preciso e non parlerei se non fossi spinto dal mio attaccamento
alla patria e alla Repubblica, ma non sono convinto che il popolo Romano si sia
appropriato in modo stabile della libertà, poiché la famiglia reale e il suo
nome non soltanto sono in città, ma addirittura al governo. Questo ostacola il nostro
definitivo affrancamento.” Così dicendo, volse la parola al console, Tarquino Collatino:
“Sta a te decidere. Solo un tuo gesto spontaneo può dissipare i nostri timori.
Certo non bisogna dimenticare che tutto è cominciato dal martirio di tua moglie
Lucrezia e che hai collaborato a cacciare il Superbo. Ma, ora prosegui il tuo
nobile comportamento e porta via da Roma il nome del re. Ti concederemo tutti i
tuoi beni, anzi, se non sono abbastanza, te ne aggiungeremo altri e vattene da
amico, libera la città da questa paura, forse infondata, ma la gente è convinta
che soltanto quando il nome dei Tarquini sparirà da Roma, svanirà anche la
monarchia.” Lucio Tarquinio Collatino, frastornato, avrebbe voluto replicare,
ma attorniato dai senatori più influenti e dal suo ex suocero Spurio Lucrezio
Tricipitino, fece le valige e abbattuto, si trasferì a Lavinio. Dopo la sua
partenza, il senato approvò una legge che obbligava tutti i Tarquini all’esilio
perpetuo. Poi, al suo posto, come secondo console fu scelto Publio Valerio, uno
dei primi sostenitori della rivolta contro il Superbo. Durante la tirannide,
molti giovani a lui vicino, sia perché amici dei figli o perché figli di amici,
avevano perso i passati privilegi. Il re era irascibile e pericoloso, ma dopo un
momento di rabbia tornava normale, ricompensando bene chi gli si mostrava
amico, mentre la parità tra le classi sociali che la Repubblica aveva
stabilito, infastidiva non poco i rampolli.
Un
giorno arrivarono a Roma degli ambasciatori che reclamavano i beni del Superbo,
ma la vera intenzione era quella di sondare il terreno per il ritorno del re
esiliato. La restituzione dei beni fu discussa per vari giorni in senato. Poi,
i senatori accettarono la richiesta per non fornire scusanti a una guerra,
anche se significava dargli le risorse economiche per finanziarla. Gli
ambasciatori nella permeanza a Roma identificarono i nostalgici della monarchia
e consegnarono loro una lettera del Superbo, ai quali prometteva l’impossibile
a chi l’avesse aiutato a riprendere il potere.
I
fratelli Aquili e i fratelli Vitelli, la cui sorella aveva sposato Giunio Bruto,
avevano due figli chiamati Tito e Tiberio, coinvolti in un complotto insieme ad
altri giovani esponenti di famiglie importati romane. Insieme sottoscrissero un
testo da inviare ai Tarquini, come prova della loro fedeltà, dopo aver bevuto sangue
di un uomo sacrificato per l’occasione. Ma, un servo andò a spiattellare tutto
ai senatori, i quali scortati dai Littori irruppero nella casa dei Vitelli,
acciuffandoli in flagranza di reato. Sequestrata la lettera, furono incarcerati
insieme agli ambasciatori, in attesa di giudizio. Poi, pur accusati di un grave
reato furono mesi in libertà, mentre la restituzione dei beni del Superbo, già
approvato dal senato, furono donati al popolo. Si trattava di terreni, oggi in zona
Flaminio, chiamati Campo Marzio e consacrati a Marte, coltivati a farro, pronti
per la raccolta, ma poiché era sacrilegio mangiarne il frutto, fu tagliato con
lo stelo, messo in ceste di vimini e gettato nel Tevere. In estate, il fiume,
come sempre povero di acque, accatastò i cesti nel fondale basso e melmoso,
bloccato da altri detriti. Poi, poco alla volta, detriti e canaste di vimini e
farro raggrupparono una grande quantità di rifiuti, tanto da formare un
isolotto, al quale fu alzato il livello aggiungendo della terra, rendendolo
abitabile e pronto a ospitare costruzioni. Era nata l’isola Tiberina. Ma,
questa è una leggenda, come tante altre che riguardano soprattutto i primi
cinque secoli della storia di Roma.
Poi,
i traditori furono condannati a morte, costringendo il Console Lucio Giunio
Bruto a far eseguire la condanna contro i propri figli. I Littori legarono i
condannati a un palo, in una piazza stracolma di gente. Tanti i giovani
implicati nella vicenda, ma tutti guardavano con un occhio i giovani figli, Tito
e Tiberio e con l’altro il Console padre, Lucio Giunio Bruto che stava per
ordinare la loro esecuzione. Coloro che avevano rinnegato la libertà chiamata Repubblica
e rinnegato il padre, la patria, i senatori e il popolo romano, per
ripristinate la tirannide dei Tarquini, stavano per scontare la loro condanna.
I
traditori subivano potenti sgusciate sino a lacerare la loro pelle. Alcuni
svennero e altri morirono sotto i colpi. I sopravvissuti, slegati, furono
decapitati con un’ascia. Bruto, inflessibile, ma, teso, mostrava il dolore di un
padre per la perdita di due figli. All’ammirevole schiavo, al salvatore della
patria, fu concessa la libertà, la cittadinanza Romana e un premio in denaro. Così come Romolo fondò Roma e più di mille
anni dopo, un altro Romolo ne decretò la sua fine, così Bruto decretò l’avvento
della Repubblica e un altro Bruto, discendente del primo, quasi mezzo millennio
dopo, ne decretò la fine, con l’uccisone di Caio Giulio Cesare. Reiterazioni
della storia.
Tarquinio
chiese aiuto alle città di Veio e Tarquinia, per scatenare una guerra contro
Roma. In caso di vittoria, le città avrebbero avuto in cambio i loro vecchi
possedimenti perduti durante le passate guerre contro Roma. La vendetta offuscò
le menti di quei popoli che con sommo piacere consegnarono nelle mani di
Tarquinio un esercito ben strutturato per fronteggiare Roma. La battaglia ebbe luogo in territorio Romano,
nei pressi della Selva Arsia,
nel 509 a.C.. Gli schieramenti erano nelle mani dei neo eletti consoli, Publio
Valerio Publicola al comando della fanteria e di Lucio Giunio Bruto al comando
della cavalleria, contro le forze Etrusche di Tarquinia e Veio, del deposto re
di Roma, Tarquinio il Superbo, alla guida della fanteria e di suo figlio
Arrunte Tarquinio, al comando della cavalleria.
Le
cavallerie si scontrarono per prime. Bruto durante la battaglia, intravide Arrunte Tarquinio,
il cugino nemico, colui che sin da piccolo l’aveva deriso. Scagliandosi contro
in un duello all’ultimo sangue, entrambi persero la vita. Poi, anche la fanteria
si unì alla battaglia e il risultato fu un’ecatombe senza esito. All’arrivo di un violento temporale gli
eserciti si ritirarono, ognuno pretendendo la palma della vittoria. L’esercito
di Tarquinia costrinse i Romani a ripiegare, mentre i Veienti furono piegati
dai Romani. Nella notte, una voce misteriosa proveniente dalla selva echeggiò nei due accampamenti. Era Silvano, il dio della Selva, che diceva: “Gli Etruschi hanno perso undicimila
trecento uomini. I Romani uno di meno.” La vittoria era stata assegnata ai Romani,
attraverso la voce di un dio. Nulla di più perentorio. Alle
prime luci dell’alba, il Console Publio Valerio fece raccogliere i corpi dei
caduti e le armi lasciate sul campo di battaglia, entrando a Roma vittorioso su
un cocchio a quattro cavalli, per celebrare il primo trionfo della civiltà romana.
Era il primo marzo del 509 a.C.. Furono eseguiti
dei sacrifici di ringraziamento per gli dei e l’esercito festeggiò tutto il
giorno. Il corpo del console Lucio Giunio Bruto, morto gloriosamente in battaglia,
fu fatto sfilare per le vie della città, con una corona d’alloro sul capo. Il
suo funerale fu il più sfarzoso mai celebrato sino ad allora, ossequiato dal
popolo, dai senatori e dal console Publio Valerio in un discorso pubblico. Per
aver liberato Roma dalla tirannide e aver dato onorabilità alle donne, Lucio
Giunio Bruto fu pianto e omaggiato del lutto cittadino per un anno intero. Ma
quella battaglia fu il primo dei vari tentativi che
il Superbo attuò per cercare di riconquistare il trono di Roma.
Solo
alcune settimane dopo, l’amore che il popolo aveva riversato sul console
vincitore della guerra su Tarquinio, lasciando liberi i romani, andò perso. Il
popolo l’accasava di voler riportare la monarchia, poiché non si era affiancato
un altro console per il comando dell’Urbe e in più stava edificando una
costruzione che assomigliava più a una fortezza inespugnabile che a una
residenza, sulla cima della collina Velia. Il
popolo temette che volesse proclamarsi re. La Velia era un'altura di 40 metri, propaggine dell'Esquilino, tra il Palatino e l'Oppio. La Velia, il Palatino e il Campidoglio, sovrastano
l’area dov’era il Foro e dove Tullia uccise il padre Servio,
travolto con un carro trainato da cavalli. Quando
Publio Valerio seppe dei sospetti, se ne andò ad abitare in un’umile casa e al posto della
sua domus fu costruito un tempio dedicato alla dea Vica Pota. Disgustato
per le maldicenze, Lucio Giunio Bruto convocò nel Foro i Comizi. Nel Foro
gremito in ogni ordine di posto, Publio Valerio arrivò anticipato dai Littori,
i quali su suo ordine, adagiarono i fasci a terra. Il gesto di abbassare i
simboli del potere di fronte al popolo, fu molto apprezzato dalla gente. Iniziò
lodando il console Bruto, il quale aveva avuto l’onore di liberare Roma dalla
schiavitù monarchica ed essere morto in battaglia da eroe, mentre lui, con gli
stessi meriti, veniva accusato ingiustamente e associato a traditori come i Vitelli
o gli Aquili. “Com’è possibile che riuscite a sporcare anche le persone più
oneste? Io, il nemico pubblico numero uno del re, accusato di aspirare al
trono? Non capisco perché, anche se dovessi andare ad abitare sulla rocca del
Campidoglio, dovrei incutere timore nei miei concittadini? Come può rovinare la
mia reputazione, una banalità del genere? È così debole la vostra fiducia nei
miei confronti che conta di più dove abito, di chi sono? La casa di Publio
Valerio non sarà una minaccia alla vostra libertà. La sposterò più in basso,
anzi ai piedi del colle, in modo da abitare sotto di voi.” La paura di tornare
sotto le grinfie di un monarca, nei Romani era molto forte. Poi, Valerio
propose delle leggi che spazzarono via ogni sospetto, facendolo più popolare di
prima, meritandosi l’appellativo di Publicola. Chiunque avesse aspirato alla
monarchia sarebbe stato condannato a morte e sarebbe stato spogliato di tutti i
suoi beni. Poi, consentì al popolo di eleggere un Console e la scelta ricadde
su Spurio Lucrezio Tricipitino. Il tipo, però, tirò le cuoia alcuni giorni
dopo, sostituito da Marco Orazio Pulvillo, il quale inaugurò e consacrò il
tempio sul Campidoglio dedicato a Giove, appena terminato, mentre Valerio parti
per una campagna bellica, contro i soliti Veienti. I parenti di Valerio non
accettarono che la cerimonia fosse celebrata da Marco Orazio e al momento
culminante, gridarono che un suo figlio fosse morto all’improvviso e quindi
inabilitato a celebrare, poiché era un padre in lutto. Ma, il console fermatosi
un attimo per ordinare la sua sepoltura, continuò la cerimonia di consacrazione
del tempio a Giove. Nel primo anno della Repubblica, Roma aveva già
collezionato cinque Consoli, invece dei due previsti: Bruto, morto eroicamente,
Collatino, spedito in ostracismo, Valerio, Lucrezio, morto improvvisamente e
Orazio.
Tarquinio il Superbo morì in esilio a Cuma, Campania, nel 495 a.C., alla corte del tiranno Aristodemo che
lo aveva accolto dopo la disfatta delle forze Latine.
La notizia della morte dell’ultimo re di Roma fu accolta con manifestazioni di entusiasmo dal senato e dal popolo. Con il Superbo
terminava l’egemonia Etrusca, iniziata con Tarquinio Prisco. Durante il regno dei Tarquini, Roma aveva stretto alleanze con le città Latine, formando una lega della
quale era la città egemone, grazie alla fondazione del tempio di Diana sull’Aventino
che teneva unito la stirpe.
Testo tratto dal libro sull'Impero Romano:
"Voci dall'Antica Roma"
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