LXXVII Exposición Individual de Dibujos:
"Extasis de las Curvas" del 13 al 28 de Noviembre,
en la Galeria de Arte, MAXART.
Vita del brigante lucano Carmine Crocco
Seconda Parte
Per
un poco di tempo, vissi felice lavorando il terreno di un certo Don Biagio Lo
Vaglio. Alla masseria di questo signore benefico e buono, vi erano numerose
famiglie di contadini, le quali, conoscendo le sventure della mia, mi colmarono
di gentilezze e di bontà. Il fattore, Marco Consiglio, mi accolse come un
figlio. Mi assegnò la quota di terreno numero 85, un paio di buoi, la stalla numero
5, l’aratro, gli strumenti da lavoro. In breve, con la volontà e l’assiduo
lavoro, m’impratichii nell’arte dell’agricoltura, dedicandomi a coltivare la
mia quota. Nel primo anno il raccolto fu fecondo e il ben di Dio compensò il
mio sudore. Fatto il raccolto, pagato il fitto e il pedaggio dei buoi, calcolai
che avevo guadagnato due lire al giorno, mentre dall’altro padrone ricevevo 36
centesimi, lavorando il triplo. Io ero felice e mia sorella Rosina, lo era più
di me. Da piccola massaia, mi teneva la casa in ordine.
Alla
sera, con altre famiglie, ci riunivamo in una stalla, a sentir i racconti dei vecchi.
Ricordo un settuagenario, ancora vegeto e robusto che sapendo scarabocchiare il
suo nome, voleva passare per scienziato e guai a contrariarlo. Ci parlava dei
tempi napoleonici, affermando di aver preso parte alla caduta di Vienna, alla
presa di Berlino, alla battaglia di Iena e alla ritirata di Mosca. Raccontando
le storie del brigante Vandarelli di Foggia, di Fra Diavolo di Itri, di
Talarico e Taccone, quel vecchio ci diceva di essere buoni con la legge, con i
superiori e i signori. Di fuggire i cattivi compagni, di fare del bene per godere
della libertà e la stima del prossimo, poiché pur essendo poveri, si tira
avanti lo stesso e Dio provvede a tutto. Meglio mangiare ghiande cotte sotto la
cenere che polli rubati e vale più un carlino lavorato col sudore della fronte
che centomila ducati rubati.
Nella
masseria di Don Biagio, un mattino del maggio 1847, mentre lavoravo, un
giovanotto di famiglia nobile, montato sopra un superbo cavallo e accompagnato
da una decina di bracchi, mi passò poco distante. Fermai l’aratro e appoggiato
il braccio a tergo, in atto di riposo, fissai quel giovanotto. Un mio compagno
di lavoro, vedendomi in quella posizione, mi disse di non perdere tempo a
guardare il figlio di quello scellerato di Don Vincenzo, poiché mi poteva capitare
qualche sventura, per quanto lui, non era come suo padre. Quel giovane era il figlio
dell’assassino di mia madre. Immaginate il mio stato d’animo in quel momento. Quando
fu alla mia portata, con voce alterata, esclamai di portare i suoi cani a sé,
sperando di provocarlo, per freddarlo con una fucilata. Il giovine smontò da
cavallo, chiamò a sé i cani e mi salutò, domandandomi perché gli avevo detto di
chiamare i cani e se questi arrecavano danno. Gli spiegai la ragione ed egli si
scusò. Dopo essermi presentato, il giovane montò a cavallo e partì al galoppo.
Verso
sera venne da me il massaro di pecore Vito De Feo, pregandomi di favorire dal
signorino Ferdinandino, poiché voleva parlarmi. Fui cortesemente ricevuto con
un bicchierino di rosolio, dei biscotti di Francia, un sigaro Avana e invitato
a sedere su una comoda poltrona. Don Ferdinando parlò delle mie disgrazie
famigliari, facendomi diverse domande e io gli presentai un manoscritto, nel
quale era narrata la storia delle sventure. Il signorino lesse e senza
dimostrarsi contrariato, mi chiese della provocazione del mattino. Io gli
risposi che se avesse usato il frustino, come soleva fare suo padre, gli avrei
sparato. Il signorino disse che le colpe dei padri non dovevano cadere sui
figli. Mi disse che era disposto a soccorrere tutte le vittime di suo padre e
anche la mia famiglia, offrendomi un posto di fattore in una sua masseria.
Ringraziai accettando la proposta di fitto, di tre tumoli di terra, con i
quali speravo di guadagnare i duecento scudi, necessari per esimermi dal
servizio militare. Il signorino voleva offrirmi la somma, ma rifiutai, dicendo
che avrei accettato quella che mi mancava, al momento della chiamata alle armi.
Ma il destino mi era contrario. Il giovane, essendosi immischiato nei moti di
Napoli, del 15 maggio 1848, fu trucidato dagli svizzeri mercenari, sotto il
palazzo del Duca di Gravina. Quindi fui costretto a partire militare per
Ferdinando II, il 19 marzo 1849. Arrivai a Napoli il 26 dello stesso mese, annesso
al I reggimento d’artiglieria. Poi, il 24 giugno, m’inviarono nella compagnia
di Palermo.
Il
servizio militare non mi pareva pesante. Quello che non sopportavo, era vedere
bastonare i miei compagni, per qualche mancanza. Sulle prime piangevo, quando pensavo
al paese, agli amici e alla fidanzata che si scordò di me, sposando un altro
che poi io le tolsi per farlo brigante, ma poi, mi abituai e fui un ottimo
soldato. Il 16 dicembre 1851, da Palermo, con mio sommo piacere, poiché più
vicino ai miei cari, mi trasferirono a Gaeta.
Mia
sorella aveva 18 anni. Era di statura giusta, snella, bionda, occhi neri, viso
tondo, petto largo e gonfio. La poveretta senza padre e senza madre, separata
dal fratello soldato, campava lavorando 14 ore al giorno ed era felice nella
sua miseria. Carattere fiero, ma indole amorosa, non era rimasta indifferente
alle pretese d’amore di un suo coetaneo. Ma un giorno, una donna infame, una
mezzana chiamata Rosa, con ipocrisia e falsa affezione, cercò d’insinuarsi nel
suo animo, proponendogli il turpe mercato con un certo Don Peppino. In risposta
ebbe una rasoiata in viso, equo compenso all’iniquo mestiere. La sfregiata
nascose la sua ferita e mia sorella si nascose in casa di parenti. Quando
ricevetti la notizia, lascio considerare quale fu il mio stato d’animo e quale
tempesta agitò il mio cuore. Un disonesto ci aveva trascinati nella miseria e
alla disperazione, un altro della stessa specie, voleva toglierci l’onore e la
reputazione. Non potendo più tollerare tanta iniquità, pensai di reagire. Dopo
aver sistemato una faccenda d’onore con il sangue e aver disertato, giunsi da mia
sorella, a Rionero. A notte alta, bussai alla porta. Quando mia sorella seppe
che dietro la porta c’ero io, mi implorò di fuggire poiché la notizia del delitto
era giunta a loro. In quel momento ebbi paura, abbracciai e baciai la mia
diletta sorella, le consigliai di mantenersi onesta e uscii sulla strada.
Don
Peppino Carli, il bellimbusto che aveva mercanteggiato l’onore di mia sorella, frequentava
un circolo, dove ogni sera si giocava d’azzardo. In un angolo oscuro, presso la
porta di casa sua, attesi la vittima. Un colpo di pugnale punì l’audacia di
quel libertino. Compiuta la vendetta, mi diedi alla macchia, dove in breve ebbi
a compagni di mestiere, altri tre individui, anch’essi ricercati dalla
giustizia. Nascosti nel più fitto delle boscaglie, aggredivamo chi capitava,
rubando i denari e i cavalli.
Carmine Crocco fu arrestato il 13 ottobre 1855, condannato a 19 anni di reclusione
e rinchiuso nel carcere di Brindisi. Poi, il 13 dicembre 1859, evase, nascondendosi tra i boschi di Monticchio e Lagopesole. Carmine
seppe tramite notabili della zona che Camillo Boldoni, membro del comitato
insurrezionale lucano, concedeva la grazia ai soldati disertori che avessero
appoggiato la campagna militare di Giuseppe Garibaldi, nella spedizione dei
Mille. Per la sospirata grazia, Carmine aderì ai moti del 1860, unendosi
all’esercito garibaldino sino al 17 agosto del 1860, quando Garibaldi entrò in Napoli.
Carmine, con scrupolo e dedizione, aveva combattuto da sottufficiale
a Santa Maria Capua Vetere e nella celebre battaglia del
Volturno. Cinto dal tricolore, tornato a casa vittorioso e fiducioso d’ottenere
quanto gli era stato promesso, si recò dal governatore di Potenza, Giacinto
Albini, il quale lo rassicurò che avrebbe ricevuto la grazia. Ma, Crocco non
ricevette nulla e sulla sua testa gravò anche un mandato di cattura e la
condanna per il sequestro del capitano della Guardia Nazionale di Ripacandida,
Michele Anastasia, compiuto con l’aiuto di Vincenzo Mastronardi, prima del
suo arruolamento. Crocco tentò la fuga, ma fu sorpreso a Cerignola e
nuovamente incarcerato.
Il popolo lucano, afflitto dalla miseria e
dai continui aumenti dei prezzi sui beni di prima necessità, iniziò a
rivoltarsi contro il neonato Stato Italiano, poiché con il cambio dai Borboni
ai Savoia, non avendo avuto alcun beneficio, mentre la classe borghese, in
passato fedele ai Borbone, conservò i privilegi, appoggiando la causa
risorgimentale. L’acredine del popolo aumentò per la mancata redistribuzione
delle terre, per l’aggravio delle tasse, per il servizio militare obbligatorio
e fucilazione dei renitenti, in un regime che puniva anche il reato d’opinione.
Una popolana di Melfi, Maria Teresa Capogrossi, mentre lavava i panni con altre
lavandaie, fu arrestata per aver proferito elogi nei confronti di Francesco II
e denigrato il nuovo governo. Per sollecitare la quotizzazione demaniale, si
scatenarono ribellioni contadine che furono represse, poiché giudicate
reazionarie dal Governo Prodittatoriale Lucano. I membri dei comitati
filoborbonici, intenzionati a ripristinare il vecchio regime, sfruttando la
rabbia dei contadini, videro in Carmine Crocco, la persona ideale per guidare
la rivolta. Ma, Carmine era detenuto nel carcere di Cerignola, in attesa di
essere trasferito nel bagno penale di Brindisi. Così, Carmine fu fatto
evadere dall’influente famiglia Fortunato, parenti del futuro grande meridionalista, Giustino
Fortunato.
Per le promesse non mantenute, Carmine
accettò il ruolo di capo dell’insurrezione contro lo Stato Italiano appena
unificato, ricevendo un solido supporto di uomini, armi e soldi, dai Borboni di
Francesco II, ex re delle Due Sicilie, subentrato alla morte del padre
Ferdinando II. Con il sostegno da parte del Clero locale e di potenti
famiglie legate ai borbonici, come i Fortunato e gli Aquilecchia di Melfi,
Crocco assunse il comando di mille e duecento uomini, composti da ribelli, bistrattati
ed ex militari borbonici, speranzosi di un futuro migliore. Al comando di quella
armata, tra cui spiccavano i luogotenenti di Ninco Nanco, Giuseppe Caruso, Caporal Teodoro, Giovanni Coppa Fortunato, Crocco sconvolse molti centri
abitati, risultando un pericolo per il giovane Stato Italiano. Nel periodo
di Pasqua del 1861, nel giro di dieci giorni, occupò la zona
del Vulture. Nei territori conquistati, dichiarava decaduta l'autorità
sabauda, ordinava l’esposizione degli stemmi di Francesco II, istituiva una
giunta provvisoria, facendo intonare il Te Deum, antico inno cristiano.
Nei sanguinari attacchi, la classe borghese veniva ricattata o uccisa e le loro
proprietà depredate, ma nella maggior parte dei casi veniva accolto bene. Carmine era il terrore dei proprietari terrieri, i quali, con una
richiesta di denaro, vitto e armi, scritto su dei biglietti, dovevano cedere
alle richieste.
IL 7 aprile del 1861, Carmine occupó il castello di Lagopesole,
facendone la sua roccaforte. Il giorno successivo, sconfiggendo la guarnigione della Guardia Nazionale Italiana, del capitano Michele Anastasia che per
vendetta fu trucidato, occupò Ripacandida. Il 10 aprile, le truppe di
Carmine Crocco entrarono in Venosa, saccheggiandola e mettendo in fuga
la Guardia Nazionale, mentre la cittadinanza borghese si rifugiò
nel castello. Il popolo accorse entusiasta, indicando loro le case dei borghesi.
Durante l’occupazione di Venosa, fu assassinato Francesco Saverio Nitti, medico,
ex carbonaro, nonno dell’omonimo futuro statista e la sua abitazione fu
razziata. Fu poi la volta di Lavello, in cui Crocco fece istituire un
tribunale che giudicò 27 liberali, filo savoiardi. Le casse comunali
apportarono ai ribelli 7.000 ducati, ma, davanti alla supplica del cassiere
comunale, di lasciare il denaro per i poveri, Crocco ne prese solo 500. Il 15
aprile, Crocco fu accolto trionfalmente a Melfi, dove il
parroco Pasquale Ruggiero fu ucciso e mutilato. L’occupazione di
Melfi destò preoccupazione da parte del governo Italiano, tanto che anche Garibaldi
fu informato dell’accaduto e il fatto discusso in Parlamento. Il 16 aprile
tentò di prendere Rionero, suo paese natale, ma fu respinto dagli abitanti,
guidati dalle famiglie Brienza, Grieco e D’Andrea. Dopo la sconfitta di San
Fele, il 10 agosto, con il supporto popolare, ottenne una vittoria a Ruvo del
Monte, trucidando una decina di notabili, ma abbandonò il paese incalzato dai
regolari, comandati dal maggiore Guardì.
Con l'arrivo dei rinforzi piemontesi da Potenza, Bari, e Foggia, Crocco fu costretto a spostarsi verso
Avellino, occupando Monteverde, Calitri, Aquilonia, Conza e Sant’Angelo
dei Lombardi. Per aver collaborato con gli invasori, Ruvo fu punita con la
fucilazione di numerosi abitanti. Guardì ordinò al sindaco di rifornire il suo
contingente ma, di fronte ad un diniego, motivato con le casse vuote trafugate
dai briganti, fu arrestato con altri rappresentanti, per attentato alla
sicurezza dello Stato e complicità in brigantaggio.
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