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sábado, 1 de junio de 2013
Lucania Ultimo Confine IV
Nessun si senta escluso
Grato a Voi pietosi, per le carezzevoli cure che un giorno elargiste a profusione. Ora preme ricordar che nel lento rinnovar del tempo, cotanta nobiltà é concessa sola agli eletti e per non scalfire la Vostra magnanimità, volgete ancor lo sguardo a un miserevole. Conquistaste il cuore di una creatura, poi delusa da sobbalzi e cozzi, tanto da spingerla a rovistare altrove, per l'insopportabile stridio.
Ma quale colpa o qual crimine, così spoglio
e tanto brullo, si é macchiato da meritar sì tanto sdegno? Amar per Voi è forse
peccato? O forse molestava le Vostre grazie, con il sorriso di un cuore limpido e un’ombra inopportuna? Acredine
e indifferenza è il prezzo da
pagar al lenir dei
sogni? Eppur insieme abbiam sognato e i miei sogni reiterati, abitati da
fatine, al mattino non avean fine. O forse il ribelle giovanetto, caro a Tiche
e per talento, superava di volta in volta ogni confine?
La graffiante verità è che l’uomo non sopporta i trionfi altrui, per ferina
gelosia e crassa invidia. Assister inerme al disgregarsi d’ideali, non è cosa
d'affrontar con poca stretta, indi cercar le
gioie e affrontar le pene, tentar la sorte e riscattar disfatte, non son
crucci per codardi da ovile. Tanto accanimento e brutal rabbia, si versa tal volta sui lestofanti,
ai quali, pur concesso loro é il perdono e la reintegrazione e questa, é croce e
angoscia per chi la prova.
Eppur io, non porto rancore verso chi con tanto livore mi ha portato via
dal diletto lido, per sconforto e tatto. L’ardimento non avrei avuto,
d’abbandonar il borgo natio e tanti cari, senza cocenti inganni. Voi che avreste voluto schiantarmi e
fatto piccino, mi avete fatto grande. Adesso siete solo lumini in
lontananza che nelle notti insipide incrociano il mio
orizzonte, rimembrando il bel tempo passato che mai ritornerà.
Unica matrice
Fiorita per scortar le
stirpi in arte,
al cospetto nessun fu
tanto grande,
dalle menti scaltre e
d’ogni rime,
è figura che soavemente
esprime.
I figli tuoi son devoti
e a te cari
e schietto è il lor
sancito tratto,
la vita talvolta
rendono in armi,
che di cotanta madre
possan vantarsi.
Le mani che al flagello
tingon di rosso,
in suol straniero scorgi sanguinar le ossa,
oh terra mia, oberato da folte ingiustizie
e per macigno alla mia entità pene fittizie.
Stringo a me assai cari i tuoi ricordi
e ancor più dolci m’appaion le tue fattezze,
amo i tuoi geni e le
tue scapigliate coste,
lisciate da aliti
briosi e velleità deposte.
Un di mi fermerò al ciglio del tuo tetto,
per lontananza affranto da si tanti cimenti,
non hai più modo di placar i miei cipigli,
mi manchi tanto patria ai miei risvegli.
Quando il tempo avrà scavato sulla pelle
e i passi miei saran più lenti e stretti,
al grembo tuo saró in dignitosa
veglia,
accetterò il giudizio e
abbasserò le ciglia.
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